I Mulini ad Acqua della Medievale Randazzo

I Mulini ad Acqua della Medievale Randazzo

 

I MULINI AD ACQUA DELLA MEDIEVALE RANDAZZO

di   

Salvatore Rizzeri

 

Tra le persone di cui ho grande stima ed affetto un posto di primo piano spetta certamente a mio cugino Carmelo Venezia, (ha l’identico nome e cognome della mia defunta madre, cui era affezionatissimo e alla quale telefonava settimanalmente). Emigrato in Francia alla metà degli anni 50, come me ha innata la passione per la storia, l’arte e le tradizioni della città che gli ha dato i natali; ma ci accomuna anche il fatto di essere venuti al mondo nella stessa casa di Via Orioles, anche se a distanza di venti anni l’uno dall’altro. Torna spesso a Randazzo, vuoi perché quì risiedono le sue sorelle ed i nipoti, vuoi perché attaccatissimo alla sua città, ai luoghi, ai personaggi, agli avvenimenti che caratterizzarono la sua infanzia; cose che ricorda e racconta con grande nostalgia. Ed è proprio in una delle sue tante venute a Randazzo, (novembre 2013), che gli ho suggerito di raccontare le esperienze, le conoscenze e gli avvenimenti che da ragazzo aveva vissuto nell’ambiente di lavoro della sua famiglia e quanto saputo da nostro nonno Carmine, vecchio e stimato « Mugnaio » della città.  

Leggendo l’interessante narrazione, stupendo spaccato di vita e di storia della nostra città, ho voluto renderla pubblica e fruibile a quanti fossero interessati a conoscere particolari aspetti della nostra comunità che nessun libro di storia, di economia o di sociologia approfondirà mai. Nel riportarne il contenuto mi sono limitato solamente ad aggiungere qualche nominativo e qualche particolare di mia conoscenza riferibile ai mulini della città.

"Sono nato a Randazzo nel Quartiere di San Nicolò nel mese di ottobre del 1934, al vecchio civico numero 2 della Via Orioles, in una casa appartenente all’antica famiglia «Venezia», tutti di professione «Mugnai». Mio bisnonno Giuseppe Venezia nacque a Randazzo, secondo i miei calcoli, intorno al 1840; mio nonno Carmelo venne al mondo nel 1870 e morì nella stessa  città nel 1954. Anche mio padre Giuseppe Venezia, nato a Randazzo nell’ottobre del 1912 e deceduto in Francia nel mese di Giugno 1995, aveva seguito la tradizione famigliare fino al 1953, data in cui il suo mulino allocato nella Contrada denominata «Città Vecchia» venne definitivamente chiuso.

Essendo uno degli ultimi discendenti di questa « Corporazione » ormai estinta, desidero raccontare ciò che da ragazzo ho vissuto direttamente e quanto mi veniva raccontato da mio padre e da mio nonno a proposito dei  «Mulini ad acqua di Randazzo». Storie ed aneddoti di un tempo che fu.

I primi mulini ad acqua risalgono al medioevo essendo Randazzo luogo di produzione di granaglie e cereali; quelli di cui parlerò furono costruiti tra il XIV e il XV secolo. Vennero edificati all’esterno della Città Vecchia per evidenti motivi pratici e tecnici; principalmente sulla riva destra del fiume Alcantara, ad iniziare dal vecchio quartiere di Santa Maria dell’Itria. Bisogna  ricordare che in quei periodi l’acqua del fiume Alcantara scorreva in abbondanza, sia in inverno come in estate, ed era più che sufficiente ad alimentare i mulini.

Dove di trovavano questi Mulini  

Seguendo il racconto di mio nonno Carmelo, nel periodo in cui egli visse erano complessivamente sette. Un numero notevolissimo che evidenzia la ricchezza e l’abbondanza nella produzione di granaglie a Randazzo e nel suo territorio, prodotti che servivano non solo all’alimentazione locale, ma che venivano commercializzate ed esportate in tutta l’Isola e non solo. 

Partendo dal Piano della «Timpa di San Giovanni», ad Ovest della città, accanto ai resti della Vecchia Chiesa di Santa Maria dell’Itria, c’era il primo mulino chiamato «Mulino della Ficarra». Si accedeva dal quartiere di San Martino, percorrendo una stradina dietro l’antica Caserma Vecchia, dalla Via Santa Catarinella, scendendo e attraversando il Vallone del torrente Annunziata. Questo mulino era stato gestito in gabella da mio nonno nei primi anni del 900,  forse assieme a qualche suo socio. Questa costruzione venne successivamente trasformata in deposito ed è tutt’ora visibile.      

Il secondo mulino, sempre sulla riva destra del Fiume Alcantara e a poca distanza dal primo, era il «Mulino della Fontana Grande». Si accedeva dalla Via Santa Margherita nel quartiere di San Nicola, attraverso «Porta Pugliese», scendendo attraverso la mulattiera di sinistra verso il fiume. Prima dell’ultimo conflitto mondiale  era di proprietà del signor Paparo, (anch’egli appartenente ad antica famiglia randazzese di mugnai). Veniva aiutato nell’attività dal nipote ed abitava in Via Marsala nel quartiere dell’Annunziata. Il mulino era gestito in associazione con il Signor Giuseppe Longhitano, la cui abitazione si trovava in Via dell’Agonia nel quartiere di San Martino. Anche i figli  di quest’ultimo collaboravano nell’attività.  Questa costruzione con accanto un grande giardino, è ancora visibile. Secondo le mie informazioni, l’interno è stato completamente trasformato e gli impianti interni, smantellati, non esisterebbero più. L’immobile attualmente appartiene alla famiglia Russo, che l’ha  trasformata in abitazione di campagna.

Sempre sulla riva destra del fiume, a poca distanza dal Mulino della Fontana Grande, c’era un’altra costruzione; si trattava forse di una stazione di pompaggio d’acqua. Costruita verso il 1890 veniva utilizzata probabilmente per alimentare la città, ma poteva trattarsi anche di una piccola centrale elettrica successivamente dismessa.  Ricordo che da ragazzino, ancor prima degli eventi bellici del Luglio-Agosto 1943, attraversando questo viottolo-mulattiera per recarmi al nostro mulino, questa struttura non era più in funzione. La costruzione venne bombardata e distrutta nell’estate del 1943.                                             

Il terzo mulino, chiamato «Il Mulino dell’Erbaspina» era stato costruito  accanto al vecchio omonimo ponte, semi distrutto intorno al 1650 a causa di una frana che si abbatté sul pilone della sponda sinistra del fiume, piegandola. Prima del 1943 solo un arco era danneggiato, ma anche questa struttura venne presa di mira dagli alleati e bombardata nei mesi di luglio e agosto 1943. Le persone che ancora hanno l’occasione di attraversare questo sentiero, possono notare la costruzione che è tutt’ora visibile unitamente a qualche traccia del  canale di alimentazione. Il mulino venne definitivamente chiuso verso il 1920 a causa di un’alluvione che lo danneggiò in modo irreparabile.

Percorrendo sempre la riva destra del fiume, si arriva al quarto mulino; questo si trovava non lontano dal  ponte di San Giuliano; mia madre lo chiamava «Il Mulinello». Si accedeva dal Piano di San Giuliano, dove ancora nel dopo guerra, esistevano le fornaci per cuocere la calce e per la produzione di tegole e mattoni in terracotta. Specialisti in questa materia erano le famiglie Arcidiacono.

Il quinto mulino, detto «Il Mulino dell’Edera», (U Murinu a Liellira),  si trovava  oltre le vecchie vasche di decantazione delle fogne cittadine, sempre nello stesso quartiere, (l’ex Ghetto Ebraico). Si poteva  accedere attraverso un viottolo mulattiera passando davanti alla grotta di Città Vecchia.  Era di proprietà delle famiglie Proietto e del signor Alia; che credo avessero anche un legame di parentela.  Il mulino venne dismesso  intorno al 1952-53. 

Il sesto mulino, detto «Mulino di Città Vecchia», era stato costruito  nell’omonima Contrada. Si accedeva passando sopra la vecchia grotta, oggi quasi inesistente a causa del suo crollo, seguendo la strada  mulattiera fino alla riva del fiume Alcantara.

Questa  grande costruzione, era forse la piu’ antica e la più caratteristica dal punto di vista architettonico. Gli ultimi proprietari erano le famiglie del sig. Antonino Caggegi, abitante con i suoi figli in Via Roma nel quartiere di San Nicolò, e quella di mio padre Giuseppe Venezia. La conduzione di questo mulino si avvaleva anche dell’aiuto e collaborazione di mio nonno Carmelo, molto amico di mastro Antonino.   Il nonno era un profondo conoscitore di queste vecchie costruzioni fin dagli inizi del 900. 

Parecchi anni prima della sua morte mi raccontava che la parte posteriore dei locali di questo mulino era adibita alla fabbricazione del «drappo», che in una successiva fase della lavorazione veniva tinto con coloranti naturali. Una grande superfice dello stabilimento venne demolita dall’alluvione del 1920.  A parte i locali del mulino, sono rimasti ancora visibili i ruderi delle stalle per gli asini, ed il deposito per la paglia e il fieno.           

Il settimo ed ultimo mulino di cui ho memoria, si trovava nei pressi della località denominata «Contrada Giunta», alla periferia est della città, seguendo sempre la riva destra del fiume.  Nonno Carmelo  parlava spesso di questo mulino, ma non ho memoria di come venisse chiamato, ne chi fosse il suo proprietario. Posso semplicemente affermare che per alimentarlo della necessaria acqua, la diga si trovava  molto vicina al mulino di Città Vecchia.  Si accedeva ad esso seguendo la strada che conduce nel nuovo quartiere di « Giunta » fino alle sponde del fiume. Il mulino venne chiuso probabilmente dopo l’alluvione del 1920 che sicuramente lo danneggiò, fino a qualche decennio fa i ruderi erano ancora visibili. In questa zona l’Amministrazione comunale di Randazzo aveva deciso di costruire un ponte che collegasse le due sponde del fiume, mai completato, di esso rimangono semplicemente due poveri pilastri  in cemento armato molto inclinati ed inestetici.                       

Chi erano i proprietari dei Mulini ad Acqua 

I mulini appartenevano alle famiglie nobili e aristocratiche della città. Ma non essendo questi del mestiere, per farli funzionare erano obbligati a rivolgersi alla « Corporazione dei mugnai randazzesi ». I mugnai, prendevano in «gabella» i mulini pagando una certa somma annua; oppure in cambio di una certa quantità di grano o di farina. Le famiglie dei mugnai erano un consistente numero a Randazzo; a mia memoria erano le famiglie del sig. Antonino Caggegi, di Basilio Caggegi, I Longhitano, Gioacchino Paparo, i Proietto, mastro Alia e la famiglia Venezia, nel secolo scorso molto numerosa per componenti. Il signor Basilio Caggegi era anche il padrino di mio padre. Queste famiglie vivevano con il ricavato della loro attività, non erano particolarmente ricchi, ma tutti erano proprietari delle loro case ed anche di qualche appezzamento di terreno e vigneto. Producevano in proprio il vino, l’olio, la frutta secca, (mandorle, noci, nocciole), e la frutta di stagione. Il loro tenore di vita era certamente superiore rispetto a quello degli operai e degli agricoltori dell’epoca.

Materiale utilizzato per la costruzione  dei Mulini 

In linea di massima erano costruiti con il materiale disponibile lungo il fiume; pietre arenarie e basaltiche murate con calce e sabbia. Di stile piuttosto semplice e rustico, erano costituiti in genere da due piani; il sottosuolo, o piano interrato, era dotato di una grande apertura a mezzo arco che permetteva l’istallazione della Ruota Idraulica costruita con legno duro dai Maestri carrettieri randazzesi. Una parte della superfice del pianterreno era riservata all’istallazione delle Macine o Mole e dai loro accessori. I tetti erano costruiti con una sola pendenza e ricoperti con tegole in terracotta.  L’interno di ogni mulino aveva uno stile proprio e proprie strutture che si adattavano alla particolarità dell’impianto.

Tutti i mulini erano dotati di un grande Serbatoio d’Acqua realizzato in pietra lavica  ed avente la forma di imbuto; la sua estremità era incurvata  con una apertura per il getto d’acqua di circa dieci centimetri di diametro ed anche oltre. Era orientato verso le Pale della Ruota Idraulica che veniva fatta girare proprio dalla forte pressione e velocità esercitata dall’acqua. Il diametro del getto d’acqua poteva essere modificato secondo le stagioni; durante l’inverno poteva essere aumento, in estate diminuito; tutto questo dipendeva della quantita’ d’acqua che l’Alcantara forniva. Per modificare il diametro del getto si aggiungevano degli anelli in lamiera di diversa misura, a forma di cono. Per potere  alimentare i mulini i proprietari costruivano, a monte dell’impianto e sulla stessa riva del fiume, la propria Diga. Di solito era costituita da un muro in pietra secca dell’altezza di circa settanta centimetri; le fessure venivano otturate con un misto di argilla impermeabile ed erba, così da evitare le perdite d’acqua.  Attraverso un lungo canale «Saia» scavato nel suolo ed anche nella roccia, l’acqua veniva convogliata fino al serbatoio, chiamato comunemente  dai mugnai «LA BOTTE». 

Un particolare di questi canali era il fatto di essere dotati di sistemi di deviazione. In caso di necessità, o per riparazioni  del mulino, l’acqua  veniva deviata  mediante un sistema di pannelli scorrevoli verticalmente. Una volta utilizzata, l’acqua veniva  inviata in un canale situato a valle del mulino e reimmessa nel fiume.

Ma desidero particolarmente soffermarmi e descrivere il luogo dove ho vissuto la gran parte della mia infanzia e della mia adolescenza: Il Mulino di Città Vecchia, di proprietà di mio padre e della famiglia di Mastro Antonino Caggegi, a cui fin da ragazzino ero particolarmente legato ed affezionato. E’ in questi luoghi e con quelle persone che ho trascorso gli anni più belli della mia vita.

La diga di questo mulino era stata costruita a monte  del  Mulino dell’Edera, di proprietà, come avevo prima accennato, della famiglia Proietto. Il canale era lungo circa novecento metri, passando davanti a questo mulino recuperava l’acqua già utilizzata, permettendo così, nella calda stagione, anche l’irrigazione degli orti. Il mulino, era circondato da una grande superfice di terra coltivabile; nella parte alta c’era un piccolo vigneto con alberi di ulivi, mandorle, fichi e fichidindia; cera anche una pianta di fichi neri di una qualità molto rara e i cui frutti maturavano sempre nei primi giorni del mese di dicembre. Davanti al mulino si trovava l’orto che veniva coltivato ad ortaggi di stagione. Il Mulino di Citta’ Vecchia, forse il più antico tra quelli esistenti, possedeva la «Botte» piu’ caratteristica. Costruita in pietra lavica e profonda circa dieci metri, aveva la forma di una piramide capovolta. Il suo interno terminava come un imbuto incurvato, con un getto d’acqua di circa quindici centimetri di diametro. L’acqua scendendo a strapiombo determinava la pressione del getto. Quando si svuotava per i lavori di manutenzione si poteva ammirare il magnifico lavoro di parecchi secoli prima, eseguito dai maestri scalpellini dell’epoca. Come detto prima, il diametro del getto d’acqua poteva essere variato con appositi  anelli di forma cilindrica, dando così maggiore o minore pressione e forza alla ruota idraulica che serviva a muovere tutti gli altri ingranaggi e macchinari del mulino. (In dialetto randazzese, erano chiamati «I Varuori»). 

Il  pianterreno del mulino era a  due  livelli, con un dislivello di circa  ottanta centimetri. Nella parte piu alta, murata al suolo, era piazzata la macina inferiore. Il suo buco centrale permetteva il passaggio della testa dell’asse centrale della ruota idraulica che era invece situata in posizione orizzontale al piano inferiore, detto anche piano umido, e munita di un grosso perno quadrato. La  macina superiore, aveva un buco di circa quindici centimetri di diametro chiamato «Occhio della Mola». Incastrata orizzontalmente nell’asse centrale, sotto la superfice della mola superiore, vi era poi una lunga placca d’acciaio della dimensione di quaranta centimetri  con un buco di forma quadrata. Era appunto questa che dava alla macina il senso di rotazione e serviva anche a regolare l’altezza fra le due macine ed ottenere  così una farina  molto più fine regolandola attraverso l’occhio della mola. Le due macine erano protette da due cassettoni in legno massiccio semicircolari, chiusi con due cinture in lamiera; l’insieme  coperto da un coperchio circolare munito di un buco centrale che permetteva il passaggio del grano e dei cereali.

Voglio precisare che le macine avevano una dimensione di circa un metro e settanta di diametro e trenta centimetri di spessore; erano state realizzate con una qualità di pietra bianca, molto dura e molto pesante. Ignoro la sua provenienza. Quattro piccoli pilastri in legno erano montati sui due lati del cassone di protezione, mentre una piccola impalcatura orizzontale permetteva il supporto della «Tramoggia». La tramoggia era una cassa di legno di forma piramidale capovolta, con un piccolo buco quadrato situato al centro dell’occhio della macina superiore. Sotto si trovava un’atro recipiente chiamato «Cazzuola». Questo piccolo recipiente di forma ovale, vuoto all’interno, aveva davanti un intaglio a forma della vocale «U» La parte posteriore era tenuta con due anelli in metallo fissati alla tramoggia; davanti, sulle due estremità, era tenuta con due cordicelle aventi una lunghezza di circa cinquanta centimetri, fissati sempre davanti la faccia della tramoggia e attorcigliati con un pezzettino di legno rotondo. Attorcigliando le cordicelle, il mastro mugnaio poteva regolare l’inclinazione della cazzuola e nello stesso tempo la quantità di grano necessario ad ottenere una qualità di farina molto fine. Attraverso questo buco, si trovava un’altro piccolo e originale attrezzo chiamato «Battagliola».

Aveva la forma di una piccola squadra, poteva essere di metallo oppure in legno; la parte orizzontale attraversava  la cazzuola, mentre la parte verticale, toccava la parte superiore della macina. Questa avendo la propria superfice grezza e molto ondulata, seguiva il movimento di rotazione permettendo al grano di cadere nell’occhio della mola nella giusta quantità. La farina usciva attraverso  una canaletta  chiamata «Vuccaloro»  e raccolta in un sottostante sacco.

Il piano inferiore delle macine aveva una dimensione di circa quattro metri quadrati. Lo chiamavo il «Fosso del mastro mugnaio». A turno era generalmente occupato dagli anziani: da mio nonno Carmelo e dal Signor Antonino Caggegi. Seduti tranquillamente su uno sgabello, il cosiddetto «Furrizzu», erano loro che con le  mani palpavano la farina e controllavano continuamente e sistematicamente la qualità e la consistenza, « Finezza », del prodotto. Questa antica ed artigianale procedura dava  una qualità di farina altamente nutriente ed ecologica. I mugnai avevano una grande conoscenza delle varietà del grano e dei cereali; sapevano distinguere un grano duro da un grano tenero e valutarne la qualità. Si consideri che prima dello scoppio della seconda guerra mondiale (1940), la produzione e lavorazione del grano e dei cereali, nel territorio del Comune di Randazzo, era un’importante settore dell’economia.

Tutti i terreni destinati alla produzione di grano, da Moio Alcantara (ME), al Piano della Gurrida, fino a Maniace, nel mese di novembre venivano arati e seminati.  Ma la qualità e consistenza del terreno non era uguale ed omogenea nelle diverse contrade adibite alla coltura del cereale; ebbene i maestri mugnai della nostra città erano in grado di distinguere la qualità del grano ricavato e la zona di provenienza. E’ interessante descrivere come i meastri mugnai procedevano al blocco delle macine utilizzando un arnese molto semplice. Nel piano inferiore del mulino, a circa 50 centimetri dal getto, c’era un pilastro verticale in legno munito di un grosso perno che oltrepassava il pianterreno di circa un metro. Sulla parte superiore, quasi all’estremità, c’era un buco dove i mugnai infilavano una leva rotonda che serviva da chiave. Nella parte sottostante, all’altezza del getto, il pilastro era dotato orizzontalmente di una sbarra di legno, la sua estremità era leggermente triangolare; nel loro linguaggio questo particolare attrezzo veniva chiamato «u Turaturi», forse «l’otturatore» della lingua italiana. Esercitando un movimento semicircolare da destra verso sinistra, la sbarra veniva piazzata al centro del getto d’acqua, dividendolo in due parti, una metà verso il soffitto, l’altra metà verso il suolo, deviandolo così dalle pale della ruota idraulica.

Con questo sistema, più che semplice, si fermavano le macine del mulino.   Un’ altro  dettaglio riguarda le superfici interne delle macine; ogni macina possedeva una serie di scannellature larghe circa venti millimetri. Partivano dal centro dell’occhio fino all’estremità della macina. Queste, servivano  ad incanalare  la farina ottenuta verso le sponde e dalle sponde al vuccaloro.

Le superfici interne delle macine, dopo un periodo di usura, diventavano lisce. Ogni mese, e molte volte anche prima, i mugnai erano obbligati a smontare l’insieme  degli accessori per martellare le superfici di esse rendendole più ruvide. Da giovane, ho assistito parecchie volte all’esecuzione di questi lavori. Conoscendo le dimensioni e il peso della macina superiore, posso affermare che questo lavoro era molto pericoloso. La presenza e la forza di due mugnai era necessaria ed indispensabile. Dopo aver sollevato la macina con l’aiuto di due pali in acciaio, gli venivano posti sotto due rulli in legno; la mola veniva poi piazzata in equilibrio sulla bordura del fosso del mugnaio. Con l’aiuto di stanghe in legno, veniva successivamente capovolta sopra un‘impalcatura appositamente preparata. Le superfici erano martellate con una mazzetta usata dagli scalpellini chiamata «Bucciarda». Si ottenevano così due superfici leggermente rugose. Dopo avere proceduto alla verifica ed alla pulitura, per il rimontaggio, i mugnai procedevano nel senso inverso a quello precedentemente descritto. Questo lavoro veniva definito dai mugnai «avere le macine fresche».

Le macine fresche, venivano particolarmente utilizzate per macinare cereali diversi dal grano, cioè il granoturco, la segale, l’orzo ed anche le fave nei periodi di crisi. Usate leggermente, erano eccellenti per macinare i grani duri, teneri ed altri tipi di grano destinati al confezionamento dei biscotti e della farina pasticcera.   

Gli interni dei mulini, erano tenuti puliti ed ordinati e i muri imbiancati con il latte di calce che, all’epoca, veniva prodotta nella nostra stessa città.  La sera e durante la notte, si lavorava alla luce delle lampade ad olio, ed in seguito con le lampade a petrolio. I mulini erano dotati di un focolare munito di un tre piedi per la preparazione in loco del cibo, le casseruole erano tutte in terracotta che conferiva alle pietanze un sapore ineguagliabile. Al di fuori dei locali del mulino, nei pressi dell’orto, si allevavano polli, conigli e talvolta anche qualche piccolo maiale.

La vita lavorativa e quotidiana dei Mugnai

L’attività lavorativa della Corporazione dei mugnai era faticosissima e molto delicata. Di buon mattino il primo compito riguardava la preparazione degli animali:  gli asini oppure i muli, indispensabili per il trasporto del grano e dei cereali. Conoscevano benissimo tutti i loro clienti, i luoghi di produzione del grano, dei cereali, i magazzini e le rispettive case di abitazione. Percorrendo in lungo e in largo i vari itinerari del territorio di Randazzo e dei paesi vicini, recuperavano i sacchi di grano che venivano trasportati nei  loro rispettivi mulini.

Ogni mulino solitamente era gestito da due soci, (Mulino della Fontana Grande, Mulino dell’Edera, Mulino di Città Vecchia), aiutati nell’attività dai loro rispettivi figli, dai nipoti ed anche dai nonni. In generale necessitavano non meno di quattro persone per il buon funzionamento del mulino.

 Due persone erano addette alla sorveglianza e al funzionamento dei macchinari, altre due si occupavano del ritiro del grano e della consegna della farina. Attività che si ripeteva due tre volte al giorno.  Conoscevano alla perfezione tutte le località e le contrade della città che percorrevano in lungo e in largo instancabilmente.

Prima dello scoppia del conflitto mondiale del 1940, soprattutto i possidente e gli aristocratici della città, trascorrevano i periodi estivi nelle loro tenute di campagna, in alcuni casi anche molto distanti dal centro abitato. Per potere soddisfare i bisogni di questa classe, i mugnai con i loro animali andavano a ritirare il grano la mattina e riconsegnare la farina il pomeriggio. Ma c’erano anche i contadini, gli artigiani, financo le madri di famiglia che si recavano ai  mulini,  trasportando a spalla il loro piccolo sacco di grano. Le donne solevano traportarlo adagiandolo sul capo. I clienti non erano in genere persone benestanti; si trattava in massima parte di poveri contadini che sopravvivevano, unitamente alle famiglie,  col duro lavoro dei campi.

Nel secolo scorso la circolazione del contante era piuttosto scarsa tenuto conto della povera economia della nostra terra; la gran parte dei clienti, pertanto,  non avevano la possibilità di pagare i mugnai, infatti dopo aver pesato il grano, cedevano a questi una certa percentuale del prodotto da macinare quale compenso per la lavorazione.

Le misure utilizzate nei mulini erano  « la Garozza, la mezza Garozza, il quarto di Garozza oppure il Tumolo », quest’ultimo usato per le grandi quantità. Ogni mulino era dotato di una grande cassa in legno, chiusa da un coperchio e munita  di due grosse serrature con due chiavi differenti. L’interno era diviso in due compartimenti; sopra il coperchio di chiusura c’erano due piccole aperture dotate di tavola scorrevole. Attraverso queste aperture di servizio venivano introdotti rispettivamente il grano e la farina. Alla fine di ogni settimana, alla presenza dei due soci, muniti ognuno della rispettiva chiave, veniva aperta la cassa, ed il ricavato diviso in parti uguali.  

Al mulino di Città Vecchia la vita quotidiana si svolgeva diversamente rispetto agli altri; essendo questo situato in un posto di grande transito, tutte le mattine i contadini che abitavano nel quartiere di San Vito e Crocitta vi passavano davanti con i loro animali carichi di attrezzi da lavoro, attraversavano il fiume e si recavano nei  loro campi o in quelli dei grossi possidenti per conto dei quali lavoravano, situati  sulla riva sinistra dell’Alcantara e sulle colline antistanti i Nebrodi. Passando, salutavano i mastri mugnai e spesse volte lasciavano già di buon mattino i loro sacchi pieni di grano che, dopo essere stato trasformato in farina, venivano ripresi la sera al ritorno dal lavoro. 

In certi periodi dell’anno, mio padre con mastro Antonino Caggegi e mio nonno Carmelo, organizzavano qualche piccola festa i cui invitati erano solitamente i colleghi mugnai della corporazione.  Erano degli eccellenti cuochi, la loro specialità erano le larghe lasagne dette «alla carrettiera», preparate con la buona farina e con uova fresche prodotte dalle loro galline. Il sugo, preparato con buoni pomodori, veniva ulteriormente condito e profumato con l’aggiunta di certe erbe aromatiche del luogo. Il pollo arrosto era di rigore, ed anche se i grandi piatti in ceramica di Caltagirone non mancavano certo nella cucina del mulino, era tradizione che le lasagne venissero servite in un grande recipiente in legno posato sopra il tavolo, chiamato «Mailla». Ciascuno si serviva così con la propria forchetta. Onore agli affamati!  A tavola, inoltre, non mancava mai un buon bicchiere di vino genuino di produzione propria. 

Come avevo accennato precedentemente, i mulini erano illuminati  con le lampade ad olio e a tal proposito mio nonno Carmelo, mi raccontò un piccolo divertente anedotto capitato qualche tempo prima. Una sera d’estate, aveva invitato a cena i suoi amici; la pasta era già servita dentro la mailla e gli invitati, muniti della relativa forchetta, si precipitarono alla degustazione. Malauguratamente la minuscola lampada ad olio che illuminava la stanza cadde dentro la mailla assieme alle lasagne.  Dopo avere acceso una seconda lampada, tutti cercavano la miccia di cotone; ma non si fu verso di trovarla, infatti nella concitazione e nella fretta di mangiare, uno di loro  l’aveva sicuramente inghiottita.       

Il periodo di maggior lavoro per i mugnai era quello successivo alla raccolta del grano e dei cereali, cioè i mesi di luglio agosto e settembre. I giovani dovevano occuparsi della pulitura dei lunghi canali di alimentazione; questi dovevano essere mantenuti in perfetta efficienza, esenti da erbe e da depositi di argilla, che spesso impedivano il passaggio dell’acqua. Le piccole dighe venivano riparate evitando così le perdite d’acqua. Era un lavoro ingrato e faticoso; il più delle volte eseguito con i piedi scalzi. In questi periodi, il Mulino di Città Vecchia funzionava  fino a tarda notte. Molta farina era destinata agli Istituti Religiosi, numerosi nella Città di Randazzo prima del 1943. Le Monache dei tre Conventi Benedettini della città utilizzavano  una grande quantità di questa farina per la produzione, quasi in quantità industriale, dei grossi biscotti chiamati «I Biscotti delle Monache»,  rinomatissimi come gusto e qualità. Solamente le Religiose erano a conoscenza della ricetta segreta,  ed erano anche delle esperte nella scelta del grano. Venivano venduti giornalmente al pubblico e il ricavato era destinato per i bisogni della loro Istituzione.

A tarda notte e dopo avere fermato le macine, i mugnai pesavano la farina e dopo averla messa nei sacchi, questi venivano caricati  e legati sul dorso degli asini  pronti per il trasporto. Nelle notti buie e lungo il tragitto, i mugnai si accompagnavano con una lanterna accesa non solamente per guidare gli animali ma anche per segnalare da lontano la loro presenza. Da ragazzino, in compagnia di mio nonno, ho percorso molte volte questi tragitti. In estate e nel periodo di Luna piena,  il profilo dell’Etna e delle colline era  semplicemente spettacolare. Ammiravo  questo straordinario paesaggio con sullo fondo il volo delle lucciole che mi dava la sensazione di vivere in una fiaba. Si respirava un’aria leggermente calda, ma carica di profumi emanati dalle piante di origano, di ginestra e di menta selvatica.  Questi periodi della mia adolescenza rimarranno indimenticabili.   

Davanti all’ingresso del mulino di Citta Vecchia, sul lato sinistro, sistemata su quattro piccoli blocchi di pietra, si trovava una macina di riserva; durante l’estate la utilizzavamo da sedile. A monte si trovava la botte del mulino; quando l’acqua era in abbondanza una certa quantità veniva canalizzata attraverso una roccia, formando così una minuscola cascata.

Al crepuscolo, una volta finito il lavoro della giornata, io, mio nonno, mio padre e il sig. Caggegi con il figlio, ci sedevamo in quest’angolo a gustare un pò di tranquillità e di riposo dopo una lunga giornata di lavoro. In quelle ore molti  contadini, alcuni a cavallo, altri a piedi, passavano davanti al nostro mulino trasportando sulle loro spalle le zappe e gli altri arnesi di lavoro; con un gesto amichevole salutavano i mugnai e proseguivano verso casa,  altri si fermavano, si sedevano, chiacchieravano per qualche minuto, gli si offriva un bicchiere di vino per poi ripartire verso la propria dimora. Il fiasco di solito veniva nascosto dietro i cespugli della cascata d’acqua, così da mantenersi fresco. Certe sere, sempre seduti  su questo particolare sedile, mi raccontava che negli anni passati, soprattutto durante la sua giovinezza, in inverno come in estate, l’acqua dell’Alcantara scorreva in abbondanza e si potevano pescare le trote ed anche le anguille specialmente nei gorghi. Ma, a causa dell’ inquinamento e della negligenza degli abitanti, i pesci e le anguille sono spariti.[1] 

Una volta finita la giornata di lavoro, i mugnai riprendevano la via del rientro a casa. Arrivando nei pressi della grotta di Citta’ Vecchia, salendo sul lato sinistro, si trovava una piccola Cappelletta, chiamata dai mugnai «a Cappilluzza»;  all’interno si poteva ammirare un affresco della Madonna. I mugnai, sulla via del ritorno,  con i loro animali carichi dei sacchi di farina si fermavano spesso presso la Cappella e dopo aver fatto il segno della Croce e deposto qualche fiore raccolto lungo il percorso, facevano ritorno a casa. I resti di questa Cappelletta, molto antica, sono ancora visibili  scendendo sul lato sinistro; l’affresco però è del tutto scomparso e ciò che resta è in rovina.  Nulla è stato fatto per il recupero di questo piccolo monumento sacro. Era forse una costruzione del  1600  fatta realizzare dai vecchi proprietari di quei terreni.

La nascita dei Mulini elettrici nella città di Randazzo 

Il  5 marzo  1903, veniva costituita a Roma  la Società Catanese di Elettricità.  Nel 1907 cambiamento di denominazione; venne infatti chiamata «Società Elettrica della Sicilia Orientale». A partire dagli anni 1920 la Società iniziò un graduale processo di assortimento delle piccole Aziende Elettriche che producevano e distribuivano l’energia elettrica a livello locale. (A Randazzo ve ne era una in Piazza Loreto, accanto all’ex Villa Vagliasindi. Le turbine erano mosse dall’acqua di un pozzo attiguo che veniva poi immessa nell’acquedotto comunale).

Con l’arrivo dell’energia elettrica, la città di Randazzo entrava in un’epoca industriale moderna [2]. La notte la città incominciava ad essere illuminata con le nuove lambade elettriche; gli edifici Pubblici, il Palazzo Comunale, le Scuole e alcune case private godettero di questo innovativo servizio, indice di grande progresso che  facilitò e semplificò la vita della gente e dei Carrettieri costretti nelle notti buie a circolare con la luce di una lanterna. Dopo il 1920 diversi mugnai pensarono bene di trasformare i loro mulini ad acqua, utilizzando l’energia elettrica, fatto questo che comportava una radicale trasformazione degli impianti con nuovi e moderni macchinari mossi non più dalla forza dell’acqua ma dall’energia elettrica, trasformandoli quindi in piccola industria molitoria. 

I Mulini elettrici a Randazzo erano complessivamente sette. Il primo si trovava  nel quartiere di San Martino, all’uscita di «Porta Palermo», esattamente a sinistra  accanto l’antico abbeveratoio. Il secondo, in Via Marconi nei pressi di «Porta Aragonese», di proprietà della famiglia del Sig. Salvatore Paparo; il terzo nel quartiere di Santa Maria sempre in Via Marconi a poca distanza della casa del defunto Sacerdote Don Salvatore Cariola. Il quarto, nell’ex Via Regina Margherita, oggi Via Giuseppe Bonaventura, proprietari la Famiglia Mario Paparo e Figli.  Questo mulino era il più grande della città; godeva di locali spaziosi, equipaggiato da una serie di macchinari moderni degni di quest’epoca. La ditta impiegava, oltre ai propri figli, parecchi operai utilizzati sia per il reperimento del grano che per la consegna della farina. Questo lavoro era eseguito all’epoca con l’aiuto  di un lungo carrozzone tirato da un’asino. Poteva considerarsi una industria di medie dimensioni che andò sempre più espandendosi fino agli anni settanta.

Il quinto mulino, si trovava al numero 114 di Via Duca degli Abbruzzi; questa abitazione, apparteneva a mio nonno Carmelo Venezia. Dopo avere eseguito al pianoterra moltissimi lavori e dopo l’istallazione dei nuovi macchinari, chiese alla Soceta’ Elettrica della Sicilia, l’allacciamento e la fornitura  dell’energia. I dirigenti della Società fornitrice chiesero però una somma molto importante per quell’epoca; esattamente seicentocinquanta lire. Mio nonno, persona dal carattere assai forte, ritenne quell’importo eccessivo e pur disponendo dei denari non volle accettare le condizioni proposte. Questo mulino pertanto non  venne mai messo in funzione. Poco tempo dopo i macchinari furono rivenduti e forse rimontati in quello di Via Marconi.  Il sesto di proprietà del sig. Vincenzo Paparo si trovava in Via Carmine – Piazza Loreto, ed operò fino alla fine degli anni 70. 

Il settimo  mulino elettrico, il più recente, era stato creato in Via Duca degli Abbruzzi, non lontano dalla Chiesa di San Nicolò. Apparteneva al signor Giuseppe Rizzo, imparentato con  la famiglia  di Mastro  Antonino Caggegi.[3]  

Dopo la nascita dei mulini elettrici, i tre mulini ad acqua sopravvissuti: «  Fontana Grande, Mulino dell’Edera, e Città Vecchia », videro ridursi notevolmente il lavoro e la clientela. I mulini elettrici impiegavano molto meno tempo nelle lavorazioni e la resa in farina era maggiore. Unico inconveniente le frequentissime interruzioni di elettricità che bloccavano totalmente l’attività molitoria per tutto il tempo del distacco della corrente, cosa totalmente assente nei vecchi mulini ad acqua.

Senza mugnai non c’era farina, e senza farina non c’era pane, motivo per cui la Corporazione dei Mugnai rappresentava un elemento importante ed indispensabile nell’economia della città e non solo. Unita e solidale fu sempre al servizio della popolazione Randazze che per tale motivo fu sempre molto riconoscente e rispettosa verso i suoi componenti, molto numerosi nel secolo scorso.

Nei periodi di Festa, particolarmente durante quella dell’ Annunziata, oppure di San Giovanni, i proprietari dei tre mulini ad acqua in compagnia dei loro soci, dopo il rientro della Processione, di solito veniva invitati a casa del signor Paparo che abitava non molto distante della Chiesa dell’Annunziata, in Via Marsala. Da ragazzino ho avuto più volte l’occasione di assistere a queste riunioni amichevoli sempre in compagnia di mio nonno e di mio padre. Dopo aver chiacchierato per un pò, la moglie di Mastro Paparo, donna Caterina, riempiva di vino rosso una grande brocca in terracotta, la cosiddetta «cannata», per poi servirlo agli invitati, offrendo anche una gran quantità di dolci confezionati dalla stessa in un grande piatto decorato. Molte volte le riunioni amichevoli si svolgevano nella casa di mastro Antonino Caggegi in Via Roma; posso affermare che il vino servito da sua moglie era molto apprezzato dagli ospiti.   

Per  la festa di San Giovanni, cioè il 24 Giugno, e sempre dopo il ritiro del Santo, l’appuntamento era a casa del Signor Giuseppe Longhitano. Abitava con la sua famiglia e i suoi figli maschi, anche loro mugnai, in Via Dell’Agonia, a poca distanza dall’omonima chiesetta. L’accoglienza era sempre amichevole e cordiale; mastro Longhitano era un uomo gentile e generoso oltre ad essere persona di grande allegria. La riunione terminava sempre bevendo un abbondante bicchiere di vino rosso.  Il signor Longhitano sopranominato «Carruzzita» verso il 1954, dopo avere venduto le sue proprietà, emigrò con la famiglia in Argentina. Da allora non abbiamo più avuto notizia alcuna di queste persone dall’animo gentile e generoso.  

Nel 1940 l’Italia entra in guerra; i giovani agricoltori vengono arruolati nell’Esercito, obbligati a combattere e a subire e partecipare agli orrori che questa comporta. Nel periodo che va dal 1939  al 1943,  il governo italiano aveva promulgato una legge per cui tutti i raccolti di grano, cereali, olio ed altri alimenti di prima necessità, dopo essere stati dichiarati alle Autorità locali, dovevano essere consegnati nei depositi statali chiamati «Ammasso». Questi grandi depositi erano amministrati da impiegati comunali che a loro volta venivano sorvegliati dalla Milizia Fascista. Una parte considerevole dei prodotti era destinata alle truppe tedesche e italiane e solo una piccola quantità veniva ridata ai produttori. In questi periodi, più che difficili, alla gente venne fornita la tessera per il razionamento dei prodotti alimentari e di prima necessità. Ogni persona, aveva diritto a circa 200 grammi di pane al giorno; l’olio, il formaggio, la farina, lo zucchero ed altre materie, erano anch’esse razionate. Ma i nostri contadini con i produttori di grano, nel periodo della raccolta, per non soffrire oltre il normale la fame, nascondevano una piccola parte dei loro raccolti. Le Autorità Provinciali erano a conoscenza di questo sistema e per poter meglio controllare, obbligarono i proprietari dei mulini e i mugnai, di lavorare a turno. Ogni settimana c’erano nella città di Randazzo solo due mulini in attività. I mugnai avevano l’obbligo di tenere a disposizione, per gli eventuali controlli, un registro di carico e  scarico con il cognome e nome dei clienti, nonché la quantità dei cereali trattati. Il controllo, spesse volte all’improvviso, veniva effettuato dagli Agenti della Milizia Fascista provenienti da Catania. Circolavano con le motociclette; erano severissimi ed in caso di errori o truffe, i mugnai  rischiavano la prigione. Un panettiere randazzese per non avere rispettato le regole, venne arrestato e condannato. Quello fu un periodo difficile, molto duro e triste per le famiglie, soprattutto quelle numerose. Ogni fine settimana, il sabato sera, le macine dei mulini venivano «sigillate» da un impiegato del Dazio. (Oggi tale ufficio non esiste più). Questo compito, più che ingrato, era stato assegnato al Signor Salvatore Bonfiglio, il quale ogni fine settimana si recava nei due mulini di turno per compiere tale sgradevole servizio.  In quel periodo abitava con la sua famiglia in Piazza San Domenico; il vecchio Convento Domenicano con la sua Chiesa, in quel periodo erano animati dalla presenza dei Padri Salesiani e questo antico complesso, non era stato ancora colpito dai bombardamenti. Il Signor Bonfiglio era un uomo cortese, rispettoso, il suo linguaggio era diplomatico e vestiva sempre elegantemente. Conosceva benissimo la triste situazioni e i disagi che la guerra causava alla nostra citta e alla gente che vi abitava. Nel mulino di Città Vecchia, quando era il proprio turno di apertura, si era organizzata la sorveglianza con l’aiuto del socio Mastro Antonino, del figlio e di mio nonno Carmelo, permettendo, in caso di controllo, di essere avvertiti per tempo. Il mulino era situato a valle  della grotta e il figlio del signor Caggegi, all’ora ragazzo, si nascondeva in alto dietro una grande roccia; quando gli agenti della Milizia si avvicinavano a bordo delle motociclette, in quel tratto erano costretti a lasciare i loro  mezzi di trasporto e recarsi a piedi, percorrendo circa ottocento metri prima di arrivare al mulino. Nascosto tra i cespugli e munito da un grande fazzoletto bianco, agitandolo, segnalava l’arrivo della Milizia.  Questo sistema  permetteva ai mugnai di nascondere le quantità di grano, cereali e farina non dichiarate, molto preziose ed utili per le famiglie. 

Nel 1958 con mio padre, da emigrato, mi trovavo in Francia e una sera, nel nostro piccolo alloggio, mi volle raccontare un episodio avvenuto agli inizi del 1943. Per lui si trattava certamente di un segreto che non aveva mai svelato. Molte famiglie, abitanti nel quartiere di San Vito e Crocitta, si trovavano in forte disaggio economico. Queste famiglie avevano nascosto una certa quantità di grano non dichiarandolo; i bambini soffrivano la fame, la farina per preparare un pò di pasta e il pane mancava. Mio padre, in segreto e di nascosto, evitando le spie, numerose in quel periodo, andò a trovare il Signor Bonfiglio. Sempre segretamente spiega la grave situazione. Dopo una lunga riflessione questi disse a mio padre, « Giuseppe avverti con molta prudenza e  precauzione queste famiglie, questa sera togli i sigilli e durante la notte cerca di macinare quanto più grano puoi; domani alle sei del mattino sarò a Città Vecchia e rimetterò i sigilli alle macine ».  Con l’aiuto di mio  nonno, il primo lavoro fu la sorveglianza ed una pulitura del canale, per assicurarsi che la quantità d’acqua fosse sufficiente per il buon funzionamento delle macine. Giunta la sera il mulino è stato messo in funzione e durante la notte, con l’aiuto dei loro animali, i clienti e gli amici hanno potuto trasportare la preziosa mercanzia nei loro rispettivi domicili. Grazie alla collaborazione e all’intervento del Signor Bonfiglio, al suo gesto di bontà e solidarietà, si consentì a molte mamme di nutrire per qualche settimana i loro bambini. Quante volte il Signor Bonfiglio, in quel disgraziato periodo, ha ripetuto quest’atto di solidarietà, certamente molto rischioso per lui e per il suo impiego ? Chissà, questo rimane un segreto.

Così la vita e il lavoro dei mugnai  in quei periodi più che difficili. Dal 13 Luglio al 16 Agosto, la Medievale e bella Città di Randazzo venne bombardata dagli alleati. Ben 84 incursioni aeree la ridussero in macerie. I disastri causati dalla guerra furono immensi ed indescrivibili per il patrimonio immobiliare, artistico- monumentale, per la gente e per l’economia della città. Malgrado la Riforma Agraria, molti contadini non vollero più lavorare la terra, altri cambiavano mestiere trasferendosi al nord nelle nuove fabbriche. I giovani mugnai non avendo da quella antica attività un reddito sufficiente per mantenere la famiglia, si trasferirono all’estero. La concorrenza era diventata ancora più feroce e  i mulini chiudevano l’uno dopo l’altro. Come se ciò non bastasse, nel 1950 una grande alluvione causò danni gravissimi nella nostra Regione. Questo cataclisma, durò quasi una settimana distruggendo al suo passaggio alberi, piante e vecchie costruzioni. Il vecchio Torrente  dell’Annunziata ingrossò a tal punto da demolire parte della Vecchia « Fontana Grande », i resti dell’antica costruzione vennero poi manomessi dalla mano dell’uomo. Il fiume Alcantara scendeva impetuoso ; le sue sponde si sono allargate causando danni ai tre mulini ad acqua. Le piccole dighe vennero travolte. Una parte  del Mulino di Città Vecchia venne distrutta assieme a un lungo tratto del canale di alimentazione. Malgrado questo disastro, e dopo molto lavoro, il mulino  per qualche anno venne rimesso in funzione. Il lavoro diminuiva e con esso  il reddito dell’azienda, pertanto con l’accordo del  nuovo socio, si decise la chiusura definitiva di questo antico mulino.

Mio padre emigrò in Francia nel 1957.  In seguito, il mulino dopo essere stato vandalizzato, venne distrutto da un incendio causando il crollo del tetto e la sua distruzione definitiva. Attualmente si trova in uno stato di rudere. La «botte», ancora visibile, è stata riempita di pietre; opera di certi pastori che forse non amano il loro passato. La natura ha ripreso pieno possesso di quei luoghi.                        

Solo il mulino della Ditta Mario Paparo & figli è stato capace di stare al passo con i tempi, cambiando i vecchi macchinari con attrezzatura moderna e più performante. La Ditta doveva però lottare contro la concorrenza esterna; Il grano e le farine giungevano dalla Russia, dall’Argentina e dagli Stati Uniti. Questa piccola industria, subiva anche la concorrenza dei grandi stabilimenti istallati nelle città siciliane e nel nord dell’Italia. Nel 1985 anche questo stabilimento venne chiuso definitivamente per problemi finanziari. 

Nel frattempo, un’altro piccolo mulino elettrico entrava in funzione; si trovava in Via Galliano a poca distanza della Ferrovia Circumetnea. Il proprietario era un anziano maniscalco; però dopo qualche anno di funzionamento venne dismesso. L’ultimo mulino in attività a Randazzo, è stato quello di Via Duca degli Abruzzi, all’angolo della Piazza San Nicolò di  proprietà del signor Giuseppe Rizzo. Nell’anno 2000 anche quest’ultimo mulino chiuse i battenti.   

Oggi, la Citta’ di Randazzo non possiede nessun mulino. Parecchi anni indietro, avevo avuto la pazza idea di ricostruire  il Vecchio Mulino di Città Vecchia e creare un luogo di curiosità per gli alunni di tutte le scuole ed anche per gli appassionati e i cultori delle tradizioni e delle cose antiche.

Le spese per la ricostruzione sarebbero state enormi ; le pratiche amministrative più che complicate, ho deciso pertanto di rinunciare alla mia pazza, ma non certo cattiva, idea.             

Le tradizioni religiose della Corporazione dei Mugnai

I Mugnai, in generale, erano tutti particolarmente religiosi:  devoti  a San Giuseppe e soprattutto al Bambin Gesù. Da secoli era tradizione che tutte le mattine del 24 Dicembre la Corporazione dei Mugnai si riunisse nella Chiesa dell’Annunziata. Veniva chiamata «La mattinata dei mugnai». Alle ore sei del mattino veniva celebrata la Santa Messa. I Mugnai erano accompagnati dai figli e dai loro nipoti; gli anziani, vestiti con l’abito più elegante, si coprivano con  un grande mantello scuro a ruota,  anche per ripararsi dal freddo.  Per questa ricorrenza i maestri mugnai, accompagnati dai discendenti, avevano il privilegio di occupare i posti situati sul lato sinistro dell’Altare della Chiesa. L’altare era illuminato dalla luce di moltissime candele, la Chiesa sempre stracolma di fedeli. La Messa veniva celebrata da un prete della Basilica di Santa Maria, numerosi a quel tempo. Adolescente, ho assistito molte volte a questo avvenimento. Mi riferisco naturalmente al periodo che va dal dopoguerra alla metà degli anni ’50. Il vecchio organo della chiesa funzionava con due mantici azionati manualmente; veniva suonato da un insegnante del tempo: il maestro Ludovico Del Campo, amante della musica e di questi antichi strumenti. I mantici erano azionati da un signore, di cui però non ricordo il nome. Questo povero uomo, era nato con i piedi deformati. Madre natura era stata certamente ingrata nei suoi confronti; poteva camminare a fatica e solamente con l’aiuto di due piccole stampelle. Era sopranominato «Martilluzzu», ed era una gran brava persona. I fedeli intonavano gli inni in onore del Bambin Gesù, domandando la pace, la salute e il lavoro.  Tutte le spese di per queste funzioni Religiose erano interamente pagate dalla Corporazione dei Mugnai. Dopo la chiusura definitiva dei Mulini ad acqua ed in seguito dei Mulini elettrici, anche queste usanze e cerimonie  locali sono scomparse.

La Messa delle ore sei del mattino nella Chiesa dell’Annunziata viene ancora oggi  celebrata, ma la «Mattinata dei mugnai  randazzesi» non si festeggia più.

Rimangono gli Archivi della Chiesa della Santissima Annunziata che non ho mai avuto modo di consultare, chissà . . . forse contengono informazioni precise e più importanti. Desidero terminare questo  modesto saggio, con la strofa di una ninna nanna cantata dalle giovani mamme francesi, per addormentare i loro piccoli, in onore dei mugnai. La canzone parla di un vecchio mugnaio, il quale stanco per il lavoro, si addormentò lasciando girare a vuoto le macine del suo mulino, rimasto ormai senza grano:

«Meunier, tu dors, Ton moulin, Ton moulin va trop vite. Meunier, tu dors, Ton Moulin, Ton Moulin vas trop fort ».                           

Termina così  la storia di molti secoli dei nostri Mulini e dei Mugnai della  Città di Randazzo. Ai giovani e agli amanti della natura vorrei dare un piccolo suggerimento:  quando, andando per le campagne, vi troverete a passare davanti ai ruderi di quelli che furono i «Mulini ad acqua della città di Randazzo», rivolgete un  pensiero a quella nobile e coraggiosa corporazione, che nel corso dei secoli ha contribuito non poco al progresso sociale ed anche al benessere della nostra bella e gloriosa Città".

                                                                                                                       

Beausoleil, Febbraio   2013                                                                                                                        Carmelo Venezia

Randazzo, Novembre 2014                                                                                                                        Salvatore Rizzeri

 

[1] Da un po’ di anni le Trote sono tornate a ripopolare il coso del Fiume Alcantara.

[2]  A Randazzo i lavori di elettrificazione vennero effettuati tra il 1910 ed il 1911.

[3] E’ stato l’ultimo Mulino di Randazzo a chiudere i battenti alla fine degli anni 80.