La Città dell'Arte

Paolo Ciulla - Un Grande Artista Sconosciuto

PAOLO CIULLA  

(Caltagirone19 marzo 1867 – 1º aprile 1931)

Nato a Caltagirone in provincia di Catania subito dopo l'unità d'Italia, e ancora ragazzo si fa notare per il tratto del suo disegno che lo porta ad ottenere una borsa di studio. Andrà a studiare all’accademia di Roma, e a quelle di Napoli e Parigi. Diventerà un ottimo illustratore di libri e pittore. Per biechi motivi politici non gli concederanno mai di insegnare, ignorando meriti, diritti e curricula.

Fra la fine dell'Ottocento e gli inizi del novecento fu costretto all'esilio, probabilmente a causa delle simpatie anarchico-socialiste diffusesi anche a seguito dei Fasci siciliani e, secondo alcuni, a causa delle sue tendenze omosessuali. Nel suo girovagare passò da Roma e giunse a Parigi, dove frequentò l'ambiente artistico di Montmartre sino al 1910 e dove conobbe, fra gli altri, PicassoRousseau e Modigliani. Sulle sue avventure si mescolano spesso romanzo e realtà, specie per il periodo successivo, quando lasciò l'Europa per trasferirsi a Buenos Aires. Nel periodo argentino visse dapprima come aiutante di un fotografo, quindi tentò la falsificazione dei pesos per ribellarsi a una repubblica che sentiva "falsa". Scoperto, fu internato in un manicomio dove rimase sino al 1916.

Segnato, infatti, dallo stigma della diversità sin da bambino, Paolo Ciulla è insensibile nei confronti delle sollecitazioni che gli vengono dal padre, ciabattino che arrotonda i guadagni commerciando pellame. Piuttosto è rapito dalle dita della madre che sanno come trasformare i fili di seta colorati in fiore, foglia, policromia di arabeschi. Il ricamo, dunque, e il disegno, sono la sua vera passione. «Copiava tutto, e quando non trovava nulla di interessante attorno a lui, disegnava a memoria e con grande esattezza di dettagli volti, oggetti, paesaggi già visti». Finite le scuole primarie, Paolo si iscrive alla regia scuola tecnica, nonostante il disappunto del padre. Ma nulla egli può nei confronti di quel figlio ostinato e lunatico. Sensibilità straordinaria, disposizione eccezionale per la pittura, temperamento anarchico, sessualità tormentata e poco ortodossa: ci sono tutti gli ingredienti per fare di Paolo Ciulla una sorta di Caravaggio siciliano. E questa sua natura maledetta, il suo inconscio esorbitante, le visioni mostruose che lo visitano, ci vengono puntualmente restituite.

Fu artista dalle potenzialità straordinarie, ma come sovrastato da una stella nera: che è di sventura, di annientamento, di mascheramento continuo. All´abilità nel disegno si somma il socialismo utopico che anima i suoi discorsi, che lo spinge a disconoscere privilegi di ogni sorta. La passione per la politica gli consente una tracotanza che però la pratica del disegno e della pittura annulla. Seguiamo dunque Paolo Ciulla durante il suo soggiorno romano: la sua vita pasoliniana, tra osterie e incontri omosessuali, lo relega ai margini. E nel buio della sua stanza, le tele di una bellezza senza uguali. Sullo sfondo di una Sicilia che ribolle (tra Fasci e empiti socialisti), di un´Europa in subbuglio, si consuma l´esperienza terrena dell´artista calatino. Ora lo ritroviamo a Parigi, nel 1907: non la città romantica e libertaria del suo immaginario, ma caotico serbatoio di boulevard, grandi magazzini, ricettacolo di mendicanti e clochard. Ottiene il pass come copista al Louvre e se ne va in giro osservando, analizzando, senza mai rivolgere la parola a nessuno. Conosce alcuni pittori di Montmartre: Amedeo, «un italiano bello come una statua», di solito accompagnato da maligni commenti sulla sua pittura: «uova con occhi, i suoi ritratti, in cima a lunghi cilindri» (si tratta di Modigliani), e dello spagnolo Pablo, basso e ricciolino (Picasso). Pare che le cose a un certo punto vadano a gonfie vele per lui: un gallerista si innamora dei suoi disegni. La celebrità è alle porte: il successo a un passo. E però, la cattiva stella torna a gravare sul capo di Paolo Ciulla: la sua diversità sessuale è causa di trambusti. Gli amici lo tradiscono, la gente lo addita come un mostro. Alla stregua di una meteora, dunque, Ciulla attraversa il cielo di Parigi. Poi è la volta di Buenos Aires: lo spirito anarchico torna a infuocarlo; il risentimento nei confronti di una Repubblica ingiusta sempre più gli cova dentro. Si affaccia così l´idea di realizzare pesos falsi. Ed è qui che impara i rudimenti della falsificazione della cartamoneta e li perfeziona inventando la tecnica delle fotografie sovrapposte.

Scoperto, viene arrestato e internato in un manicomio di Buenos Aires; nel 1916 torna in Sicilia dove comincia a creare i cliché della carta da 50 e 100 lire. Reso ormai semicieco dall’uso degli acidi, i soci che non si fidano di lui, lo mollano. Ma lui non demorde.

Si trasferisce in una casupola sperduta in mezzo alle sciare della periferia di Catania, dalle parti di viale Mario Rapisarda, dove creerà il suo capolavoro. E’ la banconota da 500 lire (che vale circa 750 euro attuali) così perfetta che solo lui, Ciulla, potrà riconoscerla: “Fondo viola pallido, cornice azzurra, stemma sabaudo in alto, in testa un’aquila, poi l’allegoria della Legge, l’allegoria della Giustizia bendata, la spada impugnata… E per finire, un puttino che regge una bilancia”.

Persino il perito delle Banca d’Italia riconobbe che i biglietti fabbricati da Paolo Ciulla erano autentici capolavori, tali e quali agli originali.

Nel giro di due anni ne metterà in circolazione per 12 milioni, l’equivalente di 18 milioni di euro.
Quando le guardie faranno irruzione nella catapecchia in cui viveva e lavorava troveranno un uomo quasi cieco e solo. Accanto a lui le sue macchine, i suoi acidi, e le banconote stese in casa ad asciugare su un filo teso, come panni al sole.

Parlerò solo davanti al Procuratore del Re”, dichiara alle guardie regie. E al Procuratore che vuole interrogarlo: “Davanti a un artista si tolga il cappello”.   

Fu condannato a cinque anni e seimila lire di multa mentre venivano assolti i banchieri e i deputati coinvolti nello scandalo della Banca Romana. Tantè. Questa è la vita.

Pochi sanno che di questo grande e dimenticato artista la città di Randazzo ha la fortuna di conservare dei meravigliosi lavori che nei primi anni del secolo scorso gli vennero ordinate da un nobile randazzese che, conosciutolo e avendo  apprezzato le sue notevoli capacità artistiche, lo incaricò di affrescare le volte di alcune stanze (il grande salone e lo studio) della villa nobiliare che aveva fatto costruire in quegli anni alla periferia della città etnea. Si tratta dei ritratti di numerosi famigliari di questa antica e nobile famiglia randazzese. Ritratti di una bellezza incomparabile e dalle perfette dimensioni, ricavati dalle vecchie foto di famiglia, in bianco e nero, che il nobile committente gli fornì. In occasione della visita che nell'agosto del 2015 il Prof. Vittorio Sgarbi fece a Randazzo, invitato dall'attuale nobile proprietario, ebbe modo di ammirare questi stupendi lavori. 

Si ridurrà cieco dopo che i vapori degli acidi usati per stampare i suoi capolavori gli avranno corroso le pupille e fatto perdere del tutto la vista. Morirà nel 1931 cieco e povero, in un ospizio, dove insegnava a ballare agli altri vecchietti i tanghi e le milonghe che aveva imparato in Argentina.

«La verità non è mai superficie. Ci vogliono occhi allenati per vederla. Perché a volte ha l´apparenza della menzogna».

La Pittura

LA PITTURA NELLA CITTA’ DI RANDAZZO 

di 

Salvatore Rizzeri

 

Nel campo della pittura, così come in quello della scultura, Randazzo ha tale dovizia di opere che si può seguire attraverso esse quasi tutto lo svolgimento stilistico dell’arte siciliana. Essa infatti possiede opere del lontano sec. XIII, del quattrocento, in cui giganteggia la figura di Antonello, del cinquecento e via via dei secoli successivi, fornendoci così una prova non solo dell’importanza ed opulenza della città, ma soprattutto di una mentalità aperta all’arte e al progresso.

Le più antiche manifestazioni dell’arte pittorica in Randazzo sono gli affreschi della distrutta chiesetta degli Agathoi studiati magistralmente dal Prof. Enzo Maganuco, e l’altro della Madonna del Pileri. Entrambi, per lo stile, entrano nella corrente degli affreschi bizantini studiati dall’Orsi e dall’Agnello. Le figure di S. Agata, di un Martire, di un Apostolo e soprattutto l’Annunciazione che adornava ai lati il frontale dell’arco trionfale, con i loro colori a base di rosso cremisino, giallo, marrone qua e la sbiaditi dal tempo e dall’umido, ci rivelano la loro appartenenza ad un’età in cui la tradizione bizantina, col suo scheletrismo, ancora improntava la pittura siciliana. E’ una pittura fredda e nello stesso tempo maestosa, solenne, in cui la calma e la immobilità delle figure, con i volti allungati, con il loro schema longilineo, ci mettono a contatto con uno stile veramente monumentale. Traspare però nel disegno dell’anonimo artista quella tendenza al rinnovamento della sua arte che sfocerà in quella corrente che ci porterà alla Pietà di S. Martino, al trittico Fisauli, a quel quattrocento siciliano sublimato dall’arte di un Antonello.

Probabilmente contemporaneo ai distrutti affreschi sopra ricordati è quello della Madonna del Pileri nella chiesa di S. Maria. Certamente appartiene a quel gruppo di immagini della Madonna che numerose si riscontrano in molte città della Sicilia. Peccato che il tempo ha inciso profondamente, con i suoi morsi, l’immagine e la bellezza della nobiltà di cui era improntata tutta l’icone. Appartiene probabilmente a questo secolo anche il rovinato affresco della chiesa della Pietà. L’atroce dolore che traspare dal volto evanescente del Cristo, la truce deformità del corpo martoriato, ci fanno pensare che esso entri nella cerchia di quelle figure del Cristo morente nello strazio più grande perché potesse commuovere e spingere all’ascesi.

Tutto il trecento, agitato dalle lotte politiche tra Svevi ed Angioini, nel campo della pittura si esaurisce in quelle opere tradizionali nelle quali, qua e là, si intravede il timido tentativo di rompere il tradizionalismo bizantino, per accostarsi ad un’ideale aderente alla realtà più naturale nelle espressioni. A questa corrente di timido rinnovamento appartiene l’ancona della Pietà di S. Martino. Cedono in essa i rigidi lineamenti bizantini per dare posto ad un pathos di una potenza insospettabile in un maestro del primo quattrocento. Una tragica calma, uno spasimo vibrante nel volto della Madre Dolorosa, un Cristo spiritualizzato, delicatamente stretto dalle dita esili ed allungate delle mani di Maria, danno alla scena una efficacia inaspettata. L’opera si ricollega all’arte dei migliori maestri del quattrocento siciliano che, in parte, fu dominato da influenze straniere ma seppe creare un Tommaso de Vigilia, un Pietro Ruzzolone e l’infinita schiera di pittori di croci iconoclastiche che popolano le chiese della Sicilia.

Alle influenze straniere si ricollega invece l’ormai disperso Trittico Fisauli: in questo secolo infatti sono operanti nell’Isola maestranze spagnole, lombarde, fiamminghe, pisane che larghe tracce lasciarono nel mondo dell’arte in Sicilia. Il Trittico Fisauli è una di queste opere che il Maganuco attribuì a Turino Vanni da Pisa. In esso su sfondo dorato campeggia la figura della Madonna reggente sul grembo il Bambino; sui due sportelli laterali sono riprodotti rispettivamente S. Gregorio e una Santa Martire. In alto sulla cuspide centrale vi è una Pietà, ai due lati la Vergine e l’Angelo Annunziante.

Come conforto per la perdita di questa opera insigne ci rimangono le miniature del libretto eburneo della B.ssa Giovannella De Quatris. Sono sei e rappresentano l’Annunziazione, la visita a S. Elisabetta, la Natività, la Circoncisione, la Crocifissione e il Martirio di S. Sebastiano. Riprodotte su fogli di pergamena incollate a tavolette di avorio, presentano tutte un unico stile. Il paesaggio, le torri, la decorazione degli sfondi o dei particolari ci richiamano le costruzioni quattrocentesche della città di Randazzo.

La seconda metà del quattrocento è improntata da un grande maestro del pennello e del colore: Antonello da Messina. Educato alla scuola di Napoli, centro eclettico di varie correnti artistiche, apprese il meglio delle scuole borgognona, fiamminga, veneta, lombarda, e creò la sua arte universale fatta di luminosità plastica del disegno di alto lirismo spaziale, improntando di sé tutto il cinquecento siciliano e italiano. Nel 1473 la Confraternita della SS. Trinità di Randazzo commissionava a Giovanni Saliba un gonfalone che venne successivamente dipinto ed indorato dal Maestro. [1] Nel 1478, appena un anno prima della sua morte, il Rettore della Confraternita di Santa Maria, Ruggiero De Luca, commissionava ad Antonello una bandiera di zendalo rosso, dipinta con bellissimi colori azzuolo ed oro.[2] Purtroppo anche queste seguirono la sorte delle tante opere dell’artista. L’esistenza a Randazzo di tali stendardi è accertata da documenti inoppugnabili; irreparabilmente perdute, purtroppo a nulla sono valse le ricerche di studiosi a diradare il mistero di queste scomparse. Della scuola di Antonello ci rimangono però due splendide opere: il Trittico della chiesa di S. Nicola e il Polittico custodito il quella di San Martino, quest’ultimo attribuito ad Antonello de Saliba nipote del Maestro.

Col sorgere del nuovo secolo, nuovi indirizzi, nuovi interessi s’impongono e l’orientamento della pittura siciliana viene guidati verso il manierismo romano portato nell’Isola da Cesare da Sesto, da Vincenzo Pavia e nell’ultimo scorcio da Polidoro da Caravaggio, il cui passaggio fu considerato dagli storici locali come un avvenimento di grande importanza. Di questo periodo sono tre quadri della chiesa di S. Maria: La Pentecoste di ignoto, l’ancona del Caniglia (1548), ma soprattutto la tavoletta del Raffaello di Sicilia – Girolamo Alibrandi -, rappresentante il Miracolo della lava. Il quadro della Pentecoste, appartenente alla vecchia e distrutta chiesa dello Spirito Santo, fu segnalato per la prima volta dal Di Marzo che lo definì un’opera veramente rappresentativa della pittura del ‘500. Un manierismo arcaicizzante appare invece nella tavola di G. Caniglia, ancora attaccato al vecchio schema bizantino della “Dormitio Virginis”.

Ben diversa la tavoletta dell’Alibrandi, opera di grande efficacia che risulta non solo dalla grandiosità del disegno che in uno stile di sintesi raggiunge chiarezza e immediatezza, ma soprattutto dall’uso del colore, esempio di arte raffinata, trasmessa all’artista dalla scuola del grande Leonardo.

La fine del manierismo in Sicilia viene segnata dall’attività di Filippo Paladino. La sua arte caratterizzata dall’allungato e ricco modello dei corpi e da figure che campeggiano tra luci ed ombre, attenuate nello sfondo da gradazioni chiaroscurali, fu continuata in Sicilia da una numerosa schiera di seguaci  fra cui famoso Giuseppe Salerno detto lo “Zoppo di Gangi”. Di questo pittore che lasciò una infinità di opere dal disegno monumentale in cui sfoggia un colore composto e lirico nello stesso tempo, vi è in Randazzo, nella chiesa di S. Nicola, un piccolo quadro di San Gregorio Magno, che il Maganuco assegna al primo periodo di attività dell’autore. Altra opera del primo seicento è la Trasfigurazione della chiesa dei Cappuccini, attribuita al Lanfranco, unico rappresentante in Randazzo della grande scuola nazionale barocca.

Michelangelo Merisi, il “Caravaggio”, fuggito da Roma e da Malta, fa la sua comparsa in Sicilia  dove dà, con la sua arte potente, un colpo decisivo al manierismo e crea una scuola a Messina che dominò nell’Isola per tutta la prima metà del secolo.

Il fiammingo Van Hombracken, appartenente a questa scuola, ha lasciato in Randazzo una Crocifissione di potente realismo. Essa rappresenta l’opera più bella che possiede la chiesa di S. Maria. Lo sfondo tenebroso  da cui balzano, nel loro chiarore livido, le figure del Cristo in croce, di Maria e di Giovanni, il tragico che ispira tutto il quadro, rafforzato da questi violenti scuotimenti di luce, mentre ci dicono che esso fa parte di quella corrente del seicento siciliano che fa capo al Merisi, ci presenta un’opera di un’efficacia artistica di grande realismo.     

Allo stesso ambito appartengono le altre tre opere della stessa chiesa, due attribuite al randazzese Onofrio Gabriello: Il Martirio di Sant’Agata e il Martirio di San Lorenzo ed il terzo, il Martirio di San Sebastiano del 1614, al siracusano  Daniele Monteleone. Per il loro sfondo tetro e per la tecnica illuministica che chiarifica i personaggi con un alto senso plastico, sono certamente opere della corrente caravaggesca.

Ad Onofrio Gabriello, artista formatosi alla scuola del Preti, appartengono anche numerose opere di diverso stile che il maestro ha lasciato in Randazzo, sua patria: Cristo fonte di Grazia nella chiesa di S. Nicola, l’Angelo Custode in S. Martino; la Madonna del Rosario e la Madonna con S. Gaetano nella chiesa dell’Annunziata; S. Antonio di Padova della Famiglia Fisauli e una Resurrezione di Lazzaro, andata perduta, di cui esiste una copia presso la Famiglia Vagliasindi. A questo medesimo artista viene attribuita una leggiadrissima Natività sempre nella chiesa dell’Annunziata.

A queste opere bisogna aggiungere gli affreschi della volta della chiesa di Santa Maria opera di Filippo Tancredi, messinese. Interpellato dal Real Amministratore della chiesa venne a Randazzo ad affrescare la volta della navata centrale della Basilica con i cinque misteri mariani: l’Annunziazione, la visita a S. Elisabetta, la Circoncisione, la Presentazione al Tempio e la Purificazione.

Altro autore di questo secolo è il De Thomasio che ci ha lasciato un quadro della SS Trinità, un tempo nella chiesa di S. Francesco di Paola, adesso in quella di San Nicola. E’ una composizione armonica che nel suo colore a tinte leggiadre e soffuse  entra negli schemi che caratterizzarono la seconda metà del secolo.

Tutto il settecento fu dominato dalla corrente decorativa, che pur creando indubbi effetti artistici in moltissime composizioni, fece predominare l’accessorio sull’essenziale. L’eredita del settecento con i suoi movimenti vari fu raccolta da due pittori che in Randazzo lasciarono opere di vero pregio: Giuseppe Velasques (1750-1827) e Giuseppe Patania (1780-1852). Il primo dominò la scena dell’arte per tutto il suo secolo che vide in lui un artista di grande valore; come afferma l’Accascina, esso è l’ultimo e il più grande affreschista del settecento che seppe infondere con l’accuratezza delle linee e con la sua tavolozza smagliante un’impronta singolare e splendente nelle sue opere. Le sei tele dipinte per la chiesa di Santa Maria fanno bella mostra di se nella splendida cornice della basilica, due delle quali portano la sua firma: L’Annunziazione, l’Assunzione, l’Incoronazione di Maria V., il Martirio di S. Giacomo, il Martirio di S. Andrea e quello che io definisco un “quadro di bottega”, La Sacra Famiglia. In queste opere rivela la sua arte in pieno, raggiungendo la perfezione nel quadro del Martirio di S. Andrea, che egli reputò il migliore dei sei.

Della scuola del Velasques è Giuseppe Pataria, il migliore rappresentante della pittura neo-classica della Sicilia in cui dominò incontrastato per un cinquantennio. Di lui ci rimangono il Miracolo di S. Benedetto e il Martirio di S. Bartolomeo nell’omonima chiesa e almeno due dei quadri della chiesa del Collegio: la Trasfigurazione e il quadro di S. Basilio, la sua opera migliore.

Alla corrente neoclassica appartengono ancora le opere di Michele Panebianco di Messina (1806-1873) e Giuseppe Gandolfo di Catania (1792-1855); l’uno e l’altro della scuola del Camuccini di cui conservano la tendenza corretta e fredda. Del Panebianco abbiamo una bella Natività nella chiesa di Santa Caterina, del Gandolfo i ritratti dell’Abate Paolo Vagliasindi e di qualche altro componente della stessa nobile Famiglia.

Ultime manifestazioni pittoriche  di un qualche valore, a Randazzo sono una Madonna col Bambino di Pietro vanni (1845-1905), della scuola del Franci e del Maccari, e il Battesimo di Gesù del randazzese Francesco Paolo Finocchiaro, copia di un analogo quadro del duomo di Ferrara eseguito dal Piatti. Ambedue si trovano nella chiesa di Santa Maria. 

INDICE PROSPETTICO

DELLE OPERE DI PITTURA NELLA CITTA’ DI RANDAZZO

 

SECOLO XIII

Affreschi della chiesa degli Agathoi.

Affresco della Madonna del Pileri nella chiesa di Santa Maria.

SECOLO XIV

Madonna di Maniace nella chiesa omonima.

SECOLO XV

Miniature del libretto di G. De Quatris – Tesoro della chiesa di S. Maria.

Pietà della chiesa di S. Martino.

Affresco della Pietà, nella chiesa dell’Hecce Homo.

Turino Vanni da Pisa: Trittico Fisauli.

Polittico antonelliano, nella chiesa di San Martino.

Trittico antonelliano, nella chiesa di San Nicola.

Sportello di trittico con S. Lucia, nella chiesa di Maniace.

SECOLO XVI

Anonimo: Pentecoste, nella chiesa di S. Maria.

Caniglia: Dormizione, Assunzione ed Incoronazione della Vergine (1548), nella chiesa di Santa Maria.

Alibrandi: Il Miracolo della lava, nella chiesa di S. Maria.

Trittico della chiesa di Maniace (1555).

Affresco con Santo di casa Parisi (distrutto).  

SECOLO XVII 

Van Hombracken: Crocifissione, nella chiesa di S. Maria.

  1. Onofrio Gabrieli: Martirio di S. Agata. nella chiesa di S. Maria.
  2. Onofrio Gabrieli: Martirio di S. Lorenzo, nella chiesa di S. Maria.
  3. Onofrio Gabrieli: Cristo Crocigero, nella chiesa di S. Nicola.
  4. Onofrio Gabrieli: Angelo Custode, nella chiesa di S. Martino.
  5. Onofrio Gabrieli: Resurrezione di Lazzaro, nella chiesa di S. Martino.
  6. Onofrio Gabrieli: Madonna del Rosario, nella chiesa dell’Annunziata.
  7. Onofrio Gabrieli: Natività di Gesù, nella chiesa dell’Annunziata.
  8. Onofrio Gabrieli: S. Antonio di Padova, nella chiesa di Cristo Re.
  9. A. Bova: Madonna con S. Gaetano, nella chiesa dell’Annunziata.

Daniele Monteleone: Martirio di S. Sebastiano (1614), nella chiesa di S. Maria.

Zoppo di Gangi: S. Gregorio Magno, nella chiesa di S. Nicola.

De Thomasio: Trinità (1651), nella chiesa di S. Nicola.

Ignoto: Hecce Homo, della Famiglia Vagliasindi.

Ignoto: Madonna con le anime del Purgatorio, della Famiglia Finocchiaro.

Ignoto: Natività di Gesù, della Famiglia Finocchiaro.

Ignoto: S. Antonio Abate e S. Paolo eremita, della famiglia Finocchiaro.

Ignoto: Guarigione del cieco, della Famiglia Finocchiaro.

Ignoto: Martirio di S. Placido, nella chiesa di S. Barbara.

Ignoto: Martirio di S. Barbara, nella chiesa omonima.

Lanfranco di Jacopo Imperatore: Trasfigurazione (1612), nella chiesa dei Cappuccini.

Ignoto: Deposizione dalla Croce, nella chiesa di S. Martino.

Ignoto: Ultima cena, nel refettorio del Monastero di S.M. di Gesù.

Ignoto: Gesù con i Discepoli ad Emmaus, nella chiesa di S. Nicola.

Ignoto: Crocifissione, dipinto su tavola, nella chiesa di S. Nicola.

Ignoto: Crocifissione, dipinto su tavola, nella chiesa del Carmine.

SECOLO XVIII 

Filippo Tancredi: Affreschi della volta della chiesa di S. Maria.

  1. Giuseppe Velasques: Martirio di S. Andrea, nella chiesa di S. Maria.
  2. Giuseppe Velasques: Annunziazione di Maria V., nella chiesa di S. Maria.
  3. Giuseppe Velasques: Assunzione di Maria V. (1809), nella chiesa di S. Maria.
  4. Giuseppe Velasques: Incoronazione di Maria V., nella chiesa di S. Maria.
  5. Giuseppe Velasques: Martirio di S. Giacomo, nella chiesa di S. Maria.
  6. Giuseppe Velasques: Sacra Famiglia (opera di bottega), nella chiesa di S. Maria.

Ignoto: Affresco dell’Ultima Cena nell’ex Convento del Carmine.

SECOLO XIX 

  1. Patania: Miracolo di S. Benedetto (1843), nella chiesa di S. Bartolomeo.
  2. Patania: Martirio di S. Bartolomeo (1848), nell’omonima chiesa.
  3. Patania: Trasfigurazione, nella chiesa del SS Salvatore della Placa (Collegio S. Basilio).
  4. Patania: S. Basilio Magno, nella chiesa del Collegio Salesiano.

La Farina: Martirio di S. Barbara (1814), nella chiesa del Collegio.

La Farina: Sacra Famiglia, nella chiesa del Collegio.

  1. Panebianco: Natività di Gesù (1851), nella chiesa di Santa Caterina.
  2. Gandolfo: Ritratto dell’Abate Paolo Vagliasindi (1844), presso la famiglia
  3. Vanni: Madonna in trono col Bambino, nella chiesa di S. Maria.

Attinà: Resurrezione di Lazzaro (1869), presso la Famiglia Vagliasindi.

SECOLO XX

F.P. Finocchiaro: Battesimo di Gesù (1903), nella chiesa di S. Maria.

 

[1]  S. Rizzeri - Le Confraternite in Randazzo - Ms. inedito.

[2]  S. Rizzeri - Le Confraternite in Randazzo - Ms. inedito.

L'Architettura Religiosa

L’ARCHITETTURA RELIGIOSA

di

Salvatore Rizzeri

 

Chi stanco dalle cure di un secolo assillato, cercasse la pace confortata dall’armonia della natura e volesse ristorare le forze dello spirito alle più pure fonti di un’arte genuina, chi volesse rivivere un attimo del passato pieno di suggestivo decoro e fantasioso sfarzo, venga quassù a Randazzo tra le famose cattedrali dalle poderose absidi turrite di nero basalto, dagli svettanti campanili merlettati in bifore e di trifore. Tutto qui parla al nostro spirito: l’arte, i licheni rugiadosi, i rosolacci rosseggianti, le pittoresche ombrellifere giallastre, ancora cantano, nella loro esuberanza invadente, la storia misteriosa del leggendario passato della città, quando, pieni di sfarzo e di decoro, Costanza, Re Pietro d’Aragona, Federico lo Svevo e il triste e biondo Imperatore del mondo, Carlo V, passavano tra le viuzze della città, in mezzo a poderose squadre di guerrieri, sferraglianti in un assordante rumore di picche e di corazze.

Questa nota suggestiva alla cittadina di Randazzo è impressa dal fatto che racchiude in sé tutta la serie delle manifestazioni stilistiche dell’arte medievale siciliana, non solo nelle abitazioni civili, ma soprattutto nelle vistose costruzioni religiose delle tre cattedrali, che, con la loro massa poderosa, danno alla città una nota caratteristica non facilmente riscontrabile altrove.

Per abbracciare tutta la gamma stilistica delle costruzioni religiose, dobbiamo fare un lungo passo indietro nei secoli e spingerci all’età tenebrosa della fine delle invasioni barbariche, quando subentra in Sicilia quella civiltà bizantina che per tanti secoli, fino alla invasione araba, improntò di se tutta l’Isola.

E’ risaputo che il territorio dell’alto Alcantara presenta ancora vistose tracce di quella penetrazione della civiltà greca che cominciata con Dionisio il Vecchio, intensificatasi con Gelone e Ducezio, perdurò lungo le rive del vecchio Onobola, fino al settimo secolo dell’Era Volgare. Le Cube, vecchie chiese bizantine, sono ancora li a darci la più considerevole testimonianza di questo periodo non breve della nostra storia. Cuba, dice l’Amari, è una parola araba con cui le popolazioni locali indicano le costruzioni chiesastiche a pianta centrale, sormontate da una cupola depressa. A Randazzo ne abbiamo tre, lontane dall’attuale centro abitato, nelle contrade Feudo, Jannazzo e Acqua fredda.

Queste tre costruzioni, che non rimangono isolate nella Valle dell’Alcantara, si ispirano ad uno schema iconografico vario, almeno come si può giudicare dalle rovine purtroppo ancora non scientificamente esplorate. Sebbene non si abbiano dati cronologici di sorta, attraverso lo schema della costruzione possiamo assegnarle al VI sec. d.C. Lo schema è semplicissimo: una navatella rettangolare, una absidiola sormontata da una semicalota sferica e poi le mura perimetrali con finestrelle a feritoia.

Queste costruzioni sono di una semplicità lineare e di un alto valore storico, perché oltre a testimoniare la loro antichità, esse sono immerse in un abbondante detrito archeologico in cui predomina il rosso dei cocci di laterizio, che ci rivela come in quelle contrade ebbe stanza una civiltà.[1]

Dal periodo bizantino, testimoniato dalle predette Cube, bisogna fare un salto in avanti di parecchi secoli per trovare qualche cosa di veramente artistico in Randazzo. La civiltà araba, anche qui, come del resto in tutta la Sicilia, non ci ha lasciato nulla. La città, come centro di una certa importanza, non può farsi risalire oltre il IX sec. d.C. Essa acquistò la sua influenza politica solo nel secondo periodo normanno, quando l’elemento lombardo, trapiantatosi nella città, attraverso fortunose vicende storiche, riuscì ad imporsi all’elemento greco e latino che costituiva la sua popolazione, e a dare una poderosa spinta alla sua affermazione politica nel Regno.

E’ questo il periodo delle origini, scialbo, fortunoso che non lasciò il tempo alle tre popolazioni non ancora bene amalgamate, di occuparsi di altre attività fuori delle politiche. Su di esso impera la più impenetrabile oscurità non diradata com’è, né dai documenti d’archivio, andati distrutti nei secoli susseguenti, né dalla esistenza di alcun genere di opere architettoniche; unico testimone forse è la parte inferiore del campanile di San Martino.

La chiesa di S. Martino, col suo campanile agile come uno stelo di fiore, aggraziato nella sua sobria policromia di bianco e nero, s’innesta, secondo l’opinione del Leopold, nel lasso di tempo che intercorre tra il X e il XII secolo. La nota più caratteristica di esso sono le finestre archiacute a coppia che si aprono nel primo e nel secondo piano. Volgiamo la nostra attenzione alle loro parti decorative ed esse ci forniranno determinazioni di grande interesse.

I capitelli, la base delle colonnine, gli ornati che vi sono riprodotti, mostrano una diversa stilizzazione; nelle modanature del primo piano essa ci può portare fino al X secolo, mentre al secondo piano troviamo in tutto il complesso una maturità d’arte di molto superiore specie nella ornamentazione dei capitelli che ci richiamano la stilizzazione gotica  del periodo  svevo.

La stessa cortina muraria a conci lavici squadrati mostra, inoltre, una vera discontinuità non solo nel disegno dei conci ma perfino nella qualità della pietra adoperata, giacché nella parte inferiore, al materiale lavico si mescola il materiale arenario, mentre in quella superiore è uniformemente lavico. Queste constatazioni ci portano alla conclusione che il campanile di S. Martino nella sua parte inferiore è l’edificio più antico della città di Randazzo e probabilmente sarà appartenuto ad una costruzione anteriore all’anno mille su cui, in età normanna, si è innestato il primo e il secondo piano, e in età posteriore, probabilmente all’inizio del XIII sec., fu aggiunto l’ultimo piano a poderose trifore mitrate che ci richiamano gli edifici della vicina Taormina - Palazzo del Duca di S. Stefano e Abbatiazza - cui devono anteporsi nel tempo a causa della loro ornamentazione floreale più primitiva e più rude.

Il periodo svevo ci dà un altro gioiello d’arte che, nonostante i rimaneggiamenti, è la più bella costruzione della città, l’espressione sincera ed immediata di una sensibilità artistica sorprendente. Si tratta della Basilica di Santa Maria che, come leggiamo in una lapide, fu costruita nel periodo di tempo che va dal 1217 al 1239. La parte più genuina della costruzione è la cortina muraria esterna assieme alle absidi che formano nell’insieme una massa poderosa di nero lavico a conci squadrati e ben connessi di grandissimo effetto. Le absidi si innalzano massicce, come torri poderose su uno sperone a grandi conci lavici che ci richiama in parte la zoccolatura dei torrioni del Castello Ursino di Catania.

Il più superficiale osservatore però non può non accorgersi della sovrapposizione di stili che si alternano in tutto l’armonioso complesso di questa splendida chiesa. La brama del grandioso che ha improntato da tempo immemorabile gli amministratori della ricca fabbriceria ha fatto si che la chiesa ora ci appaia come la somma armoniosa e suggestiva di tutte le correnti artistiche dell’ultimo millennio. Infatti all’iniziale periodo romanico-svevo delle absidi e della cortina muraria segue il secondo prettamente aragonese, testimoniato dalla linea delle bifore; segue quindi la linea quattrocentesca dei poderosi portali di mezzogiorno  e di tramontana e poi ancora quella barocca delle cornici delle finestre che si aprono nelle navatelle laterali, pesanti nel loro barocco borgheseggiante, che piglia respiro con l’armoniosa facciata a modanature di arenaria aurata, tipica costruzione di gotico moderno.

Essa sostituì nel secolo passato il vecchio campanile trecentesco, già in rovina, innalzato in puro stile gotico-svevo da un vecchio maestro - Magister Petrus Tignosus – il cui nome leggevamo su una lapide della vecchia torre campanaria.

Allo stesso periodo svevo risalgono le tre chiesette di S. Stefano, degli Agathoi e di S. Vito che è ormai l’unica rimastaci delle tre, dopo l’immane sfacelo dell’ultima guerra. Di queste la chiesetta degli Agathoi, aveva un particolare pregio di indubbio valore artistico: essa infatti era ornata da affreschi che si estendevano su tutte le pareti, studiati dal Prof. Enzo Maganuco, il quale sulla scorta di un documento riportato da Rocco Pirro nella sua “Sicilia Sacra”, in essa individuò la chiesetta di S. Maia in Memore dedicata nel 1237.[2]

Ad una corrente d’arte più evoluta appartengono le chiesette di S. Maria dell’Agonia e di S. Maria della Volta. La prima più antica della seconda forse di un secolo, sta per essere completamente recuperata dopo lunghi restauri. La chiesa di S. Maria della Volta invece è una costruzione del primo ‘400. Anch’essa manomessa dai continui riattamenti segna sicuramente il passaggio dal gotico al rinascimento.

L’interno della chiesa di Santa Maria (1594), rappresenta il trionfo della più pura linea rinascimentale, quella che ha saputo creare con Brunelleschi le chiese di S. Lorenzo e del Santo Spirito in Firenze. Del medesimo periodo, ma meno imponente e più informe nelle linee, è il rifacimento della chiesa di S. Nicola (1581), la più grande della Diocesi. Scomparse all’esterno e all’interno le strutture trecentesche, eccetto che nella parte absidale esterna, acquista la classica forma basilicale a croce latina su cui, nel sec. XIX si innalzò una cupola di forma slanciata che diede alla chiesa l’imponenza delle grandi basiliche.

La chiesetta di S. Gregorio, con la sua cupoletta a tenda e le sue finestrine in arenaria risale al cinquecento, così come i portali della chiesa dell’Hecce Homo e dell’Annunziata, datato 1584, di pure linee rinascimentali. Unica eccezione in Randazzo di arte chiesastica barocca, è il portale della chiesetta di Santa Caterina, mentre la facciata della chiesa di San Nicola, dell’ultimo seicento, rappresenta l’anello di congiunzione tra la linea cinquecentesca e quella settecentesca. Essa è la più solenne espressione del barocco temperato. A cavallo del seicento e del settecento sta anche la facciata della chiesa di S. Martino, molto vicina nello schema a quella di S. Nicola. Essa è però più sobria, ma anche più snella in tutta la sua composizione.

Questo stesso equilibrio espresso dalle linee classiche baroccheggianti troviamo nel portale centrale della chiesa di San Bartolomeo (1637), che coi suoi capitelli di inusitata forma Jonica ci dà un’esempio di stile e di gusto di indiscusso pregio.

L’espressione più pura del settecento è ben rappresentata nella chiesa del Collegio, costruita dai Basiliani nel 1760 e dedicata al Salvatore. La facciata si presenta solenne e massiccia nelle sue linee schematiche improntata, dal materiale lavico, ad una ieratica serenità.

INDICE PROSPETTICO DELLE OPERE

DI ARCHITETTURA RELIGIOSA A RANDAZZO

 

SECOLI VI – VIII (Epoca Bizantina) 

Cuba di Santa Anastasia.

Cuba di Imbischi.

Cuba di Jannazzo.

SECOLI X – XI (Epoca Normanna)

Campanile di San Martino (I° piano).

SECOLI XIII – XIV (Epoca Sveva)

Chiesa di Santa Maria (parte absidale: 1217 – 1239).

Chiesa di San Nicola (parte absidale).

Campanile di San Martino (II° e III° piano).

Chiesetta di Santo Stefano.

Chiesetta di Tutti Santi (Agathoi).

Chiesetta di San Vito.

SECOLO XV (Epoca Aragonese) 

Chiesa di Santa Maria della Volta.

Chiesa dell’Annunziata del Rovere bello.

Chiesa di Santa Maria dell’Agonia.

Porte laterali della chiesa di San Martino (primo rinascimento).

Portali laterali della chiesa di Santa Maria (primo rinascimento). 

SECOLO XVI (Epoca Rinascimentale)

Interno della chiesa di Santa Maria (1594).

Chiesa di San Nicola (1587).

Chiesetta di San Gregorio.

Portale della chiesa dell’Annunziata (1584).

Portale della chiesa dell’Hecce Homo (Signore della Pietà). 

SECOLO XVII (Età del Barocco)

Chiesa di San Bartolomeo (1637).

Finestre laterali della chiesa di S. Maria. 

SECOLO XVIII (Epoca del Barocco settecentesco)

Facciata della chiesa di San Nicola (Arch. Venanzio Marvuglia).

Facciata della chiesa di San Martino (Anonimo).

Campanile di San Nicola.

Chiesa del Collegio San Basilio (1760).

Portale della chiesa di Santa Caterina (1753). 

SECOLO XIX (Epoca Romantica)

Facciata della Chiesa di Santa Maria (Arch. Saverio Cavallari, Ing. F.sco Caldarera).

 

[1] Per maggiori approfondimenti si consulti il testo dello stesso autore: “Le Cento Chiese di Randazzo . . .”  Catania 2008. Cap. I – Le Cube, pagg. 19 – 27.

[2]  S. Rizzeri: La chiesetta degli Agathoi e i suoi affreschi. Monografia fruibile nello stesso sito.

La Scultura

LA SCULTURA NELLA CITTA’ DI RANDAZZO

di

Salvatore Rizzeri

 

Anche a Randazzo, come del resto in tutta la Sicilia, la scultura del primo periodo, a differenza della pittura e dell’architettura, ha manifestazioni saltuarie e pochissimi sono gli esemplari che, d’altra parte, ci testimoniano come tale branca dell’arte non solo era a servizio dell’architettura, ma era anche patrimonio di semplici lapicidi che dominarono, con la loro opera di limitato valore artistico, tutti i secoli che antecedettero l’azione possente e vivificatrice del Laurana e dei Gagini.

Dell’età normanna e sveva ci restano a Randazzo alcuni gruppi di capitelli che si innestano nella corrente siciliana dell’ornato, che piglia i suoi soggetti dalla flora e dalla fauna, corrente di cui in seguito l’influsso spagnolo abusò talmente da portare a quell’aspetto artistico definito “pataresco” , che ha come sua caratteristica l’ammassamento degli ornati. Le decorazioni con motivi vegetali, lacustri, le forme fiorite a cardi, a margherite, il motivo del finocchio riccio, compaiono in forma primitivamente stilizzata nei capitelli del Campanile di S. Martino, mentre in quelli della Chiesa di S. Maria, con arte più progredita ed evoluta, abbiamo composizioni scultoree a base di soggetti tratti prevalentemente dalla fauna; questi, innestandosi alla tradizione normanna dei chiostri di Monreale e di Cefalù, elaborati dalla scultura sveva che si veste, in tutte le sue manifestazioni, di motivi nordici, acquistano nella Chiesa di Santa Maria, movenze lombarde e nel Campanile di San Martino francesi.

La remota tradizione bizantina trova una testimonianza in Randazzo nei capitelli a palmetta stilizzata del Fonte Battesimale di San Nicola e in quelli degli archivolti di Palazzo Rumolo, in cui la tecnica della lavorazione ad incasso reciso e vivo, fa sorgere una nota di chiaroscuro che dà pieno risalto al motivo ornamentale.

All’ultimo periodo normanno appartengono le poche opere di scultura che ci rimangono: il Leone della Cripta di S. Maria, i due Leoni in arenaria della Chiesa di S. Martino, gli angioletti che fanno da cariatide alla porta della facciata di S. Maria, le sculture del portale della Chiesa di Maniace, nonché il gruppo scultorio in arenaria ora murato sul cantonale di tramontana della Chiesa di S. Nicola. Di alto valore artistico sono i due Angioletti che fanno da mensola all’archivolto del portale di destra della facciata di Santa Maria. Secondo la testimonianza del Plumari, essi sono originari, perché appartengono al vecchio campanile del sec. XIII che venne diroccato e rifatto con nuovo schema iconografico nella metà del secolo passato  dall’Architetto Francesco Saverio Cavallari.

Una considerazione particolare merita la statuetta in marmo della facciata sud della Chiesa di S. Maria, rappresentante la Madonna col Figlioletto in braccio. Essa è di un’arte più evoluta e ci porta alla tradizione toscana; entra infatti nello schema iconografico della Madonna di Orvieto di Nino Pisano.

Altre opere di composizione scultorea che segnano un’altra tappa verso il successivo periodo rinascimentale, sono la Tribuna di S. Martino in marmo bianco di puro stile gotico, con evidenti influssi nordici, e una piccola Annunciazione infissa nel muro di una casa di Via Orto, che, sebbene gravemente mutilata dalla guerra, ci mostra, nel suo schema tradizionale, un soffio di arte nuova che supera il vecchio stile romanico.

Per trovare in Randazzo, come in tutta la Sicilia, vere espressioni di arte scultorea, bisogna aspettare la venuta dalla lontana Lombardia dei Gagini, per merito dei quali la scultura siciliana iniziò il suo corso rigoglioso e si affermò con le sue forme improntate al più puro stile rinascimentale. Fondatore della famiglia in Sicilia fu Domenico Gagini, ma colui che dominò tutto il primo scorcio del sec. XVI fu il figlio Antonello, che lasciò tracce della sua prodigiosa operosità artistica in ogni angolo della Sicilia.

Randazzo possiede di questo artista una delle opere più riuscite: La Statua di S. Nicola, nella Chiesa omonima, firmata, datata e da lui stesso collocata secondo il contratto del 1523, nel posto in cui ancora si trova. Per 60 onze egli diede alla nostra città l’opera più rappresentativa della sua maturità artistica, che suscitò l’ammirazione del Di Marzo e che venne definita dal Prof. Enzo Maganuco, con frase incisiva, “opera veramente musicale”. Nel marmo ambrato dal tempo è infatti impresso il sentimento di bellezza e maestà di cui aveva il segreto solo il Gagini.

La maestà mista alla più alta serenità, traspare dal volto come perduto in estasi: la pietà, la delicatezza e la grazia delle sue infinite Madonne si fondano qui in una sintesi ardita che penetra il cuore e che parla all’anima. L’espressione di profonda interiorità impressa nel volto è accompagnata dal più decoroso schematicismo del panneggio che senza essere vistoso è talmente proporzionato, aderente alla realtà che, come dice il Di Marzo, “saresti tentato di alzare il lembo della pianeta per constatare e toccare con mano tutte le piegature del sottostante vestito”.

Indubbiamente è la più bella opera di scultura che possiede Randazzo. Ad essa si accompagnano, della stessa scuola, i pannelli dell’altare del Santo, più sobriamente modellati, perché forse l’autore con intento non volle distrarre l’attenzione e gli occhi dell’osservatore, dall’opera più importante, verso l’accessorio. L’arte di Antonello ha come continuatore, in tono minore, il figlio Gian Vincenzo che portò a termine le sculture dell’altare del Sacramento della stessa Chiesa, rimaste incomplete a causa della morte del padre.

E’ opera del solo Gian Vincenzo Gagini la Madonna delle Grazie ora nella chiesa di San Martino, opera meravigliosa di alto lirismo scultoreo. La figura trasognata in una fissità smarrita e dolce nello stesso tempo; l’estasi della contemplazione espressa dai due occhi semichiusi che fissano il Bambino appena sostenuto, anzi sfiorato delicatamente dalle mani sottilissime e affusolate, che ci indicano l’alta spiritualità da cui è pervasa tutta la statua; le lunghe trecce, la plasticità meravigliosa del panneggiamento mettono in risalto quel sorriso dolcemente estasiato che serpeggia nel volto e si localizza nelle papille dell’affusolato setto nasale.

Assieme a questa autentica opera d’arte, altre se ne enumerano nella nostra città appartenenti a questa scuola gaginesca: La Pietà della tomba di Elisabetta Collima nella Chiesa di S. Maria di Gesù, ora ad Acireale nel Museo diocesano: E ancora: la Madonna della Misericordia in S. Martino e la Madonna del Carmine nella Chiesa omonima.

Ad un periodo di poco anteriore al rinnovamento gaginesco appartengono le metope in arenaria, ora sfaldate e corrose dal tempo, della facciata della chiesa di S. Martino, che presentano già nel loro schematicismo, la linea rinascimentale.

Opere di un’arte più evoluta, ridondante, lontana dalla semplicità cinquecentesca, sono l’altare della Basilica di S. Maria con i putti e gli Angeli del fastigio, opera di ricco e minuzioso intarsio di artisti palermitani e il lavabo della Sacrestia che ha reminescenze classiche nel putto.

Una considerazione a parte meritano i Crocifissi, una decina tra belli e brutti. In gran parte essi appartengono a quell’indirizzo iconografico che, allontanandosi dagli orrori impressionistici del medioevo, ci presenta il Cristo dolorante ma di un dolore composto e solenne che mentre ci commuove non ci inorridisce. I più recenti, opere pregevoli dell ’800, sono quelli della Chiesa del Collegio e quello della Chiesa del  Sacro Cuore. Ma le autentiche opere d’arte  sono il Crocifisso di San Martino e quello di S. Pietro. Appartengono certamente al secondo scorcio del cinquecento ed entrambi devono ascriversi a quella corrente promossa dal Francescanesimo di composto realismo della tragedia del Golgota.

L’artista interpreta la figura dolente del Redentore con una personale visione delle cose ma in cui è assai viva la dipendenza della iconografia trecentesca tendente allo strazio. L’uno e l’altro Crocifisso probabilmente sono esemplari modellati nel clima della controriforma, quando l’opera rigeneratrice della Chiesa volle stimolare e suscitare la pietà e la devozione dei fedeli.

Il Crocifisso di San Martino è attribuito ad uno della famiglia dei Matinati, fiorita a Messina nel sec. XVI. L’equilibrio della stilizzazione, la modellatura serena ed armoniosa delle membra ci fanno testimonianza della perizia dell’artista. Quello di San Pietro rivela invece un realismo più crudo, più immediato, attraverso le profonde piaghe che coprono il corpo di Gesù e attraverso le escoriazioni dei ginocchi. La stilizzazione è meno perfetta che nel precedente e una certa rigidezza  in tutta la modellazione ci dice che esso appartiene forse ad un secolo di minore sensibilità artistica e pertanto è posteriore a quello di S. Martino.

Si è fortunatamente recuperato, grazie al restauro effettuato dall’artista randazzese Prof. N. Trazzera, il Crocifisso ligneo della Chiesa di S. Maria di Gesù, opera pregevolissima di Francesco Pintorno (1601-1639), il famoso frate Umile da Petralia, che esternò la sua profonda pietà verso il Redentore, scolpendo in ginocchio ben 33 Crocifissi in legno che popolarono tutta la Sicilia e che sono improntati e pervasi da un sentimento di dolce misticismo. Completamente distrutto dalla guerra e non più recuperato quello un tempo posseduto dalla Chiesa di San Nicola.

Ai Crocifissi si possono aggiungere varie opere sacre e profane del settecento, secolo che ben poco di apprezzabile ci lasciò a Randazzo. Tra tutte queste opere mediocri, è degno di nota il medaglione in marmo che adorna la porta centrale dell’Ospedale, che porta la data del 1741.

Altra opera degna di nota è il gruppo scultorio dell’Annunziata del 1840. E’ in legno ed è un lavoro delle provette maestranze di Acireale che seppero infondere in esso non solo il movimento composto, ma anche un certo misticismo tipico in questo genere di opere appartenenti al sec. XIX.

Il poco che resta delle opere di scultura entra nel genere decorativo che, sebbene di grande efficacia e di crudo realismo, è opera piuttosto di lapicidi locali anziché di veri artisti, come i mascheroni di Casa Ferro, di Casa Romeo e le cariatidi di Via Roma. Per ammirare un vero soffio d’arte, bisogna aspettare la fine del secolo il quale seppe darci, sebbene attraverso opere di bottega, un vero sprazzo di quell’arte rinnovata dal genio di artisti che crearono opere di grandissimo valore.

Randazzo ha due stele funerarie di pregio, una del Grimaldi e l’altra del Condorelli, artisti catanesi che entrano nella scia del Duprè e che nella provincia dominarono incontrastati il campo dell’arte del primo novecento; ne può passare sotto silenzio la decorosissima Via Crucis in terracotta del Pirrone, artista contemporaneo, che attraverso la linea stilizzata novecentesca seppe imprimere una nota di vero e puro lirismo in figure improntate ad un alto realismo, che bene si inquadrano nello stile solenne della Basilica di Santa Maria.

INDICE PROSPETTICO

DELLE OPERE DI SCULTURA DELLA CITTA’ DI RANDAZZO

 

SECOLO XII 

Leone della cripta della chiesa di S. Maria.

Leoni in arenaria della chiesa di S. Martino.

Gruppo scultorio in arenaria della chiesa di S. Nicola.

Capitelli del I e II piano del campanile di S. Martino.

SECOLO XIII

Capitelli del campanile di S. Maria.

Capitelli e cariatidi delle porte laterali della facciata di S. Maria.

Capitelli del terzo piano del campanile di S. Martino.

Figura di Cristo togato presso il sig. Meli.

Annunziazione di Via Orto. 

SECOLO XIV

Madonnina di scuola pisana della porta sud di S. Maria.

Capitelli bizantini di Palazzo Rumolo.

Fonte Battesimale in arenaria di S. Nicola.

Tribuna marmorea di S. Martino.

Pila d’acqua benedetta di S. Martino.

Ciborio in marmo bianco di S. Martino.

SECOLO XV 

Fonte Battesimale in marmo rosso (1447), di Angelo Ricci, nella chiesa di S. martino. 

SECOLO XVI

  1. Gagini: Statua di S, Nicola (1523), nell’omonima chiesa.
  2. Gagini: Pannelli dell’altare di S. Nicola nella chiesa omonima (1523).
  3. Gagini: Altare del Sacramento (1535), nella chiesa di S. Nicola.
  4. Gagini: Pietà della Tomba Collima, ora in Acireale.
  5. gagini: Madonna delle Grazie, nella chiesa di S. Martino.

Scuola Gaginesca: Madonna della Misericordia, nella chiesa di S. Martino.

Scuola Gaginesca: Madonna della chiesa di S. Nicola.

Scuola Gaginesca: Fonte Battesimale nella chiesa di S. Maria.

Scuola Gaginesca: Pile d’acqua Santa nella chiesa di S. Maria.

Ignoto: Metope in arenaria della chiesa di S. Martino.

Matinati: Crocifisso della pioggia, chiesa di S. Martino (1540).

Fr. Umile da Petraia: Crocifisso della chiesa di S. Maria di Gesù.

Ignoto: Sarcofagi della chiesa di S. Maria di Gesù.

Ignoto: Sarcofago Romeo-Sollima della chiesa di S. Domenico.

SECOLO XVII

Altare maggiore della chiesa di Santa Maria (1668).

Lavabo in marmo della chiesa di S. Maria.

SECOLO XVIII 

Crocifisso della chiesa di San Pietro (1766).

Statua dell’Addolorata in San Pietro.

Statua di San Silvestro, nella chiesa dell’Annunziata (1766).

Statua marmorea del Gigante Piracmone (1737).

Medaglione marmoreo della Pietà, dell’Ospedale Civile (1741).

Cariatidi di Via Cairoli (1771).

Mascherone di Casa Ferro.

Metopa con Angelo presso sig. Meli.

SECOLO XIX

Gruppo dell’Annunciazione (1840), presso la chiesa dell’Annunziata.

Crocifisso della chiesa del SS. Salvatore, (Collegio Salesiano).

Mascheroni del campanile della chiesa del Collegio.

Mascherone di Casa Romeo in Via Cairoli. 

SECOLO XX 

Grimaldi: Genio della morte.

Condorelli: Composizione allegorica.

Giordano: Sarcofago presso cappella Fisauli.

Pirrone: Via Crucis della chiesa di S. Maria.

Statua marmorea di S. Giovanni Bosco, in Piazza S. F.sco di Paola, (Oratorio).

  1. Trazzera: Cristo Re, ceramica policroma mt. 4 x 4, nella chiesa di Cristo Re (1981).
  2. Trazzera: S. Giovanni Bosco, pala in terracotta, mt. 4 x 1,60, nella chiesa di Cristo Re (1981).
  3. Trazzera: S. Cristofaro col Bambino, ceramica policroma a bassorilievo mt. 3 x 1,50, presso Porta Palermo o della dogana.
  4. Trazzera: Gruppo scultorio in bronzo ispirato ai valori della pace, mt. 3,50 x 1,20 x 1,00,  in Piazza S. Francesco d’Assisi.
  1. Arrigo: Statua in pietra lavica di S. Giuseppe (1982). In Piazza S. G. Bosco.
  2. Arrigo: Monumento ai caduti della II Guerra Mondiale (1985), in Piazza Bixio.

                     

 

 

L'Architettura Civile

L’ARHITETTURA CIVILE

di

Salvatore Rizzeri

 

Randazzo è una città medievale non solo nell’origine ma anche nella costituzione planimetrica, morfologica, artistica e agli occhi del visitatore, che viene per la prima volta, essa si presenta come un grande scenario allietato dalle bellezze naturali che la circondano, la vivificano, la completano con una grandiosità non facilmente riscontrabile altrove: l’aere cristallino, l’imponenza dell’Etna fumante che la sovrasta, il verde smeraldino dei campi coperti di viti e di oliveti e quel mistero fantasioso che ridesta, nei nostri spiriti, lontani ricordi di fiabe e di incanti che spirano da ogni angolo della cittadina.

A completamento di questo vasto scenario, sono nell’interno i numerosi resti architettonici che ci dicono lo splendore di una città siciliana del trecento, sede di Re e di Regine; essi sono i testimoni di quell’arte sentita, anzi connaturata in un popolo che ha saputo creare in Randazzo quella che i più definiscono la “Siena di Sicilia

Il quartiere di S. Martino è il più suggestivo e nonostante la lenta e progressiva distruzione di tanto patrimonio artistico, accelerata e centuplicata dalle distruzioni belliche del luglio-agosto 1943, esso  rimane ancora il quartiere più caratteristico, dove il tempo si è fermato: Via Furnari, la suggestiva via delle “cento femmine”, intersecata dai suoi molteplici vicoli.

Artisticamente i tre quartieri si differenziano in modo sostanziale. Mentre in quello di S. Martino prevale l’arte trecentesca e quattrocentesca, nell’altro di S. Nicola predomina il quattrocento e il cinquecento, con qualche punta di seicento; in quello di S. Maria quasi del tutto mancano monumenti che vadano oltre il seicento.

Questa caratteristica di relativa modernità del quartiere di S. Maria  si spiega storicamente; infatti esso venne colpito nel 1575 -1580 dalla grande peste che ne distrusse quasi l’intera popolazione e che impose ai sanitari del tempo la necessità di purificare tutto col fuoco; in tale occasione infatti si bruciò  tutto ciò che si riteneva infetto: case, archivi, suppellettili; in pratica l’intero quartiere venne del tutto distrutto e ciò spiega perché le poche manifestazioni artistiche che in esso si trovano sono tutte seicentesche e settecentesche.

Vistose e numerose sono in Randazzo le vestigia artistiche, ma come sono lontane dallo splendore di un tempo. Addentrarci nel labirinto della datazione di tutti questi monumenti è impresa non facile: Dice infatti il Leopold: “ Le attribuzioni ad epoche determinate e a correnti d’arte ben definite delle case civili, ove non intercorra una qualche specialità che ci faccia determinare, è assai difficile”.

Le costruzioni di Randazzo vanno dall’ultimo duecento in poi: la prima epoca normanna probabilmente non ci ha lasciato nulla, sebbene, per le caratteristiche dell’arco scevro da ogni ornamento, poderoso, tozzo, potremmo scorgere un’opera normanna, nel restaurato complesso di Via degli Archi o degli Uffici su cui però era sovrapposto il tardo-trecento con una meravigliosa bifora a colonna tortile, resa un tempo più suggestiva da una pianta di agave che si affacciava dal muro sgretolato.

L’Epoca successiva, la tardo-normanna è ben rappresentata da complessi artistici di alto valore. E’ il periodo di incipiente rigoglio della cittadina.  Si iniziò la costruzione delle tre grandi cattedrali di S. Martino, S. Nicola e S. Maria che nelle loro linee architettoniche mostrano chiare ed abbondanti tracce di gotico-lombardo.

L’epoca aragonese è il periodo aureo della città di Randazzo che diventa città regale, giacché la Corte aragonese, per parecchi mesi all’anno vi dimorava. E con la Corte la città si popolò delle più cospicue famiglie del Regno, che portarono ad essa benessere e potenza. Caratteristiche dell’arte di questo periodo sono: la ghiera sporgente sopra l’archivolto a sesto acuto e l’ornamentazione floreale dei robusti capitelli.

Una caratteristica delle costruzioni trecentesche in Randazzo è la permanenza dell’arco acuto che nei vari piani può essere sostituito dall’arco a tutto sesto. Esempio chiaro di questa simbiosi dell’arco acuto a ghiera sporgente e dell’arco rotondo in tutta pomice, è la casa di via Romeo in cui ai due archi a sesto acuto delle porte corrisponde al primo piano una fuga di finestre a tutto sesto che formano come una veranda; esse con le loro cornici rincorrentisi, con la loro ghiera piatta, con il vivo lineare della pomice a riflessi neri di ruggine, sono di un grande effetto.

Il quattrocento porta nelle linee architettoniche un non so che di grazia che alleggerisce le costruzioni  e che dà una nota di vivacità con l’uso del materiale policromo. Il capitello e la colonnina si alleggeriscono e snelliscono, ritorna l’arco rotondo  in pieno risalto nella sua contrastante policromia, giacché gli stipiti, il soglio, l’arco sono di pietra arenaria e la ghiera invece di pomice nera.

Costruzioni del primo quattrocento sono le bifore di casa Russo nel piano di S, Nicolò; la chiesetta di S. Maria della Volta e qualche altra finestra dispersa nelle infinite viuzze della città.

E’ anche opportuno rilevare come, tra il trecento e il quattrocento, la ghiera lavica dell’archivolto presenta non solo una differenza di sagomatura nel rilievo e nella cornice, ma anche nella parte terminale delle corde. Si notano infatti tre maniere con cui finiscono i due capi della ghiera: la più antica è a chiocciola e risale al 1300; un’altra è a mensolina a gocciola, che si incontra in parecchie porte del duecento e del trecento, come in quella della chiesetta di S. Maria dell’Agonia e in qualcuna dell’inizio del quattrocento; la terza è a squadra, come nella casa di Via Romeo. Le mensoline della ghiera della porta di Palazzo Clarentano fanno a sé perché sono a capitello floreale, di pretta derivazione gotica.

Un’altra singolarità degna di nota, come più volte afferma Don Virzì nei suoi resoconti, è la maniera caratteristica con cui venivano ricoperti i muri delle case. Non vi era intonaco ma per preservarle ed assicurarle contro le intemperie e l’umidità, si usava stendere una cortina di lapilli a mosaico che dava alle case un aspetto austero e quasi fosco. Tale uso lo si riscontra fin dal lontano duecento e si perpetua fin quasi al settecento in cui si usa già l’intonaco e una sub-cortina singolare a base di cocci di laterizio chiamati localmente con parola greca “ciaramiti”, esempio tipico è il campanile della chiesa di S. Nicola.

Il cinquecento rivoluziona l’arte architettonica di Randazzo; in questo secolo si ha una vera e propria frenesia policroma: i contrasti tra il rosso aurato dell’arenaria e il nero pomice della lava sono quasi la nota del secolo, perché non c’è casa cinquecentesca che non abbia queste caratteristiche: da quella del nobile signore (Palazzo Clarentano e Casa Romeo), a quella del povero contadino. Ciò dimostra come la tendenza a questo contrasto irrazionale sia un bisogno intimo dello spirito siciliano, forse lontano retaggio della civiltà araba.

E’ il rinascimento di Mattia Carnelivari, con le sue gomene e le sue esili colonnine, coi suoi archi ribassati o a tutto sesto, in cui si intrecciano forme e linee quattrocentesche. Esempio splendido di quest’arte è il Palazzo Clarentano costruito nel 1509. “ Costruzione assai armoniosa – la definì il Di Marzo – è una eleganza fatta di euritmia fra le vistose linee quattrocentesche e le smaglianti bellezze rinascimentali”.

L’anello di congiuntura tra l’arte del cinquecento e quella del secolo successivo è ben rappresentato dal raro complesso della Casa Magnatizia siciliana di Via dell’Orto, in cui ormai troviamo le grandi linee rinascimentali progredite che si innestano nella corrente nazionale. Venne additato per la prima volta agli studiosi dal Prof. Enzo Maganuco, magnifico docente di storia dell’arte ed appassionato studioso della nostra città.

Il seicento si estrinseca con le porte a tutto sesto a grossa chiave di volta, nella sagomatura della quale si sbizzarrisce la fantasia dell’artista ormai reso abilissimo dalla secolare pratica nel plasmare la durissima lava nelle forme più impensate. Il tipo più caratteristico di costruzione è la porta di grande bottega spagnoleggiante, ad arco ampio, quasi a fornice, con la pesante chiave a grosso mascherone maschile. La guerra, purtroppo, ci ha privato dei pochi esemplari che l’incomprensione umana ci aveva risparmiato. Splendido esempio ne erano quella di Casa Parisi e quella i Casa Ferro.

Un esempio di arte secentesca fiorita, caratterizzata dal suo “horror vacui”, sono i balconi di Casa Fisauli-Magro in Via Duca degli Abruzzi: sfoggio di fiori stilizzati, modanature vistose, mensole sagomate e mascheroni maschili che ci richiamano le barocchissime mensole di Palazzo Villadorata di Noto.

Ad un pretto classicismo si ispira invece la costruzione dell’attuale Municipio: col suo lungo porticato a colonne toscane monolitiche e soprattutto con le sue verande serliane che adornano la facciata e due lati del cortile quadrilatero, fa trasparire una sobria serietà, insolita allo stile secentesca in genere, ma canone assoluto in Sicilia che tenne lontane da sé ogni eccessività in cui trasmodò il rococò di oltr’Alpi.

Il grande terremoto del 1693 che, con Catania, distrusse Noto e danneggiò gravemente tutta la Sicilia Sud-orientale, segna una svolta decisiva anche per l’architettura randazzese. Molte furono le case danneggiate di Randazzo: tutti i palazzi a due piani, eccetto il Rumolo e qualche altro, furono abbassati di un piano; anche Casa Scala, l’ex Palazzo Reale, perdette il suo bel secondo piano allietato da una fuga di finestre a veranda che davano a questa costruzione un’imponenza suggestiva.

Il settecento per Randazzo, come per tutta la Sicilia, rappresenta un secolo di rinnovamento che occupò nei lavori di ricostruzione e di ripristino, per quasi tutto il suo corso, l’intera popolazione.

Le linee generali del settecento randazzese sono in linea con quelle nazionali. Qualche singolarità e qualche nota di arte popolare la riscontriamo nei pilastri del porticato di Casa Romeo in Via Garibaldi, adorni di rosoni, dentelli e motivi floreali, scolpiti nella viva lava dei conci che li formano. Altri esempio rilevanti sono il Monastero dei Basiliani, che mostrano nella severità delle sue sagomature già lo spirito innovatore del neo-classicismo, ciò appare chiaramente nella facciata compatta di lava a conci poderosi, ben squadrati, della chiesa del SS. Salvatore della Placa.

L’ottocento e il primo novecento hanno solo qualche affermazione di non grande momento: il portone lavico in linee neo-classiche, col bel mascherone espressivo, di Casa Romeo di Via Cairoli, ora montato nel cortile del Castello; Villa Queta, che arieggia lo stile delle ville toscane e il Castello del marchese Romeo, tipica costruzione del rinascimento ottocentesco.

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Abbiamo voluto dare questi brevissimi lineamenti di storia artistica che sono l’espressione delle generazioni multiformi di un popolo. Certo che questi muri, queste porte, questi archi ad intagli di pietra vulcanica, malleata dalla più squisita sensibilità artistica dei popoli mediterranei, ancora ci fanno sentire potente la voce di quei secoli che furono per noi di gloria e ci sono di vanto.

INDICE PROSPETTICO

DELLE OPERE DI ARCHITETTURA A RANDAZZO 

 

SECOLO XII (Epoca Normanna): 

Via degli Archi o degli Uffici.

Palazzo Scala. 

SECOLO XIII (Epoca Sveva):

Castello Svevo (ristrutturato nel 1640).

Porta di Casa Romeo in Via Fisauli.

Finestra di Via De Quatris. 

SECOLO XIV (Epoca Aragonese): 

Casa Russo in Piazza S. Nicolò.

Palazzo Rumolo in Corso Umberto.

Porta di Via Colonna.

Palazzo Lanza.

Casa La Macchio in Via Carcere (distrutta dai bombardamenti del 1943).

Casa Camarda in Via Garagozzo.

Casa Spitaleri in Via dei Lanza.

Casa Cavallaro in Corso Umberto.

Casa di Via S. Maria dell’Agonia.

Torre del Palazzo Romeo in Via Marconi.

Arco di Via Clarentano.

Torre di San Domenico (distrutta dai bombardamenti dell’estate 1943).

Casa Dilettoso in Via dei Caggegi.

Casa di Via Romeo.

SECOLO XV:

Casa di Via Santa Catarinella:

Finestra di Via Roma:

Finestra di Via Camarda.

Varie finestre in Via Collegio.

Finestra di Via C. Beccarla.

Porta di Casa Ciprioti nell’omonima via.

Finestra di Via Vaccaio.

Finestra di Via Furnari. 

SECOLO XVI (Epoca rinascimentale):

Finestra di Via C. Beccarla.

Portale di Via Furnari.

Portale di Via Perciabosco.

Casetta di Via Collegio.

Casetta di Via Lombardo.

Palazzo Clarentano in Via Duca degli Abruzzi (1509).

Casa Palermo-Pollicino in Via Clarentano.

Casetta di Via Dilettoso (distrutta).

Portale di Palazzo Fisauli in Via Roma.

Casa Vagliasindi di Via Fisauli (1568).

Palazzo Romeo in Via Marconi.

Portale di Via Garagozzo.

Portale di Via Roma.

Portali di Via Vaccaio.

SECOLO XVII (Epoca del barocco):

Casetta di Via Fontna.

Casa di Via Pardo.

Portale di Casa Ferro.

Casa Magnatizio di Via Orto.

Finestra serliana di Casa Fisauli.

Palazzo Comunale (1610).

Portale con stemma di Via Garagozzo (1625).

Portale e veranda di Casa Fisauli in Via Roma (1625).

Portale di P.zza S. Maria dell’Elemosina (1635).

Portale di Via Collegio (1633).

Palazzo Romeo di Via Garibaldi.

SECOLO XVIII (Epoca del barocco settecentesco): 

Collegio San Basilio (1768).

Castello Romeo.

Monastero di San Giorgio (rifacimento).

Casa Licari.

SECOLO XIX (Epoca del neo-classico-romantico): 

Villa Romeo di Contrada Statela.

Portone di Casa Romeo in Via Cairoli.

Portone di Palazzo Fisauli in Via Cairoli.

Palazzo Vagliasindi in Corso Umberto (XVIII-XIX).

SECOLO XX (Epoca moderna): 

Villa Queta  di Contrada Montelaguardia (1900).