1940 - 1945 Disavventure di un Militare
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- Categoria: Avvenimenti Storici
- Pubblicato: Lunedì, 07 Giugno 2021 20:49
- Scritto da Salvatore Rizzeri
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SECONTA GUERRA MONDIALE
1940 – 1945
DISAVVENTURE DI UN MILITARE
REGIO ESERCITO ITALIANO
Rizzeri Vincenzo (mio padre)
di Salvatore e di Pappalardo Alfia di religione Cattolica
Matricola 2615 ex 211/bis
Nato a Randazzo il 22/11/1917
Soldato di leva classe 1917, Distretto di Catania. Il 21 Marzo 1939 deve rispondere alla chiamata alle armi dei militari arruolati con la leva dei nati nel 2° e 3° quadrimestre della classe 1919.
Lo scoppio della 2^ Guerra Mondiale avvenuto il primo Settembre 1939 con l’invasione delle truppe tedesche della Polonia (l’Italia era ancora neutrale), nel mese di marzo del 1940 determina la “ferma” dei militari italiani prossimi al concedo per fine servizio, fra cui anche mio padre che in quei giorni si trovava a Randazzo per una licenza premio.
Il 15 marzo 1940 viene convocato alla Caserma dei Carabinieri di Randazzo dove riceve l’ordine di rientro al corpo per “Chiamata alle Armi”. (Il Primo Ministro Benito Mussolini in quei giorni aveva probabilmente già deciso la prossima entrata in guerra dell’Italia che sarebbe avvenuta ufficialmente il 10 Giugno di quell’anno). Il 17 Marzo 1940 raggiunge la destinazione assegnatagli (Piacenza) ed aggregato al 2° Reggimento Genio Pontieri di stanza in quella città. Nell’ambito del proprio reparto opera in diverse località lungo il corso del fiume Po, costruendo e riparando i ponti distrutti dai bombardamenti aerei alleati. Il 10 Agosto del 1940 viene ricoverato per 27 giorni all’Ospedale Militare di Piacenza ove gli viene curata una gravissima pleurite acquisita in quel periodo. Dimesso, dopo una licenza ed altro ricovero presso l’Ospedale Militare di Messina, rientra in servizio nella propria Compagnia. Nel Marzo del 1942 viene ferito ad un braccio durante un bombardamento alleato presso il Campo n. 41 di Montalbo e li curato alla meno peggio dal personale sanitario della compagnia.
Il 25 Luglio 1943 viene trasferito, quale effettivo, presso il Deposito Materiali del Genio di Peschiera, agli ordini del Comando della Difesa Territoriale di Milano, proprio lo stesso giorno in cui il Gran Consiglio del Fascismo aveva deposto Mussolini dalla carica di Primo Ministro e il re aveva nominato al suo posto quale capo del Governo il Maresciallo Pietro Badoglio che autorizzò la resa incondizionata dell’Italia.
Il 3 settembre 1943 fu siglato segretamente l'armistizio di Cassibile tra il generale Castellano, incaricato da Badoglio, e il suo pari grado americano Eisenhower (che nel 1953 sarebbe diventato il 34° presidente degli Stati Uniti). L’armistizio fu reso pubblico 5 giorni dopo. La situazione militare era disastrosa. Dopo lo sbarco in Sicilia, il 10 Luglio, il Governo italiano aveva perso tempo prezioso nel tentativo di evitare una resa senza condizioni. Ma non ci riuscì.
LA GUERRA È FINITA? Alle 19,45 dell’8 Settembre Badoglio lesse ai microfoni dell’Eiar (antesignana della Rai) il suo proclama, che includeva un passaggio decisamente ambiguo:
[...] Conseguentemente, ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza [...]
A nessuno fu chiaro che cosa si dovesse fare: non sparare più agli americani? Iniziare a colpire i tedeschi? Il proclama era (volutamente) poco esplicito. I primi a pagarne le spese furono i soldati. Ordinando alle forze armate italiane di reagire solo se attaccate – ma attaccate da chi? Dagli americani o dai tedeschi - il proclama sottintendeva la speranza - dimostratasi illusoria - che gli americani ci avrebbero tolto le castagne dal fuoco guidando loro un attacco contro i tedeschi al posto nostro nei punti nevralgici del Paese. Ma questo non avvenne.
ROMA CITTÀ APERTA.
Come se non bastasse, i vertici politici del Paese abbandonarono le postazioni. All'alba del 9 settembre, con le prime notizie di un'avanzata di truppe tedesche verso Roma, il re, la regina, Badoglio e altri pezzi grossi dello Stato Maggiore vigliaccamente fuggirono da Roma senza impartire ai vari comandi (Esercito, Maria, Aereonautica) alcuna direttiva; si fermarono a Brindisi, lasciando l’esercito nella più assoluta incertezza. Nessuna misura era stata prevista per difendere la capitale, e l’esercito, lasciato senza ordini, in molti casi si dissolse. La reazione tedesca non si fece attendere. Il comando supremo delle forze armate del Reich diede via al Piano Achse, già pronto da tempo. (I tedeschi sospettavano il possibile “tradimento” dell’Italia e avevano predisposto l’occupazione dei punti strategici). La notte stessa dell’8 settembre le forze tedesche infatti presero immediatamente possesso di aeroporti, stazioni ferroviarie e caserme, cogliendo di sorpresa le forze italiane. Roma venne dichiarata “città aperta”, ma di fatto venne occupata dalle truppe tedesche.
L'ESERCITO NEL CAOS.
I tedeschi emanarono poi le direttive da applicare per il disarmo dei militari italiani, che dovevano essere suddivisi in tre gruppi: chi accettava di continuare a combattere dalla loro parte poteva conservare le armi, chi non lo faceva era mandato nei campi di internamento in Germania come prigioniero di guerra, mentre chi opponeva resistenza o si schierava con le forze partigiane veniva fucilato o impiegato nei campi di lavoro nell’Europa occupata. (E’ il caso della Divisione Acqui a Cefalonia che venne interamente decimata. Oltre 8.000 furono i soldati e gli ufficiali italiani fucilati dai tedeschi, perché non vollero arrendersi e consegnare le armi).
Piacenza 1940 – 1943 Geniere Vincenzo Rizzeri
Cosa capitò l’8 Settembre 1943 al geniere Vincenzo Rizzeri e al 2° Reggimento Genio Pontieri di Piacenza?
Questo, in sintesi, il racconto che da bambino sentivo fare a mio padre quando, nelle calde sere d’estate degli anni ’60, fuori, ci si riuniva con i vicini di casa e ognuno raccontava le proprie esperienze e disavventure, soprattutto del periodo bellico.
“ . . . intorno alle 19,30 dell’8 Settembre 1943, era appena iniziata la distribuzione del rancio per la cena nella mensa della caserma di Piacenza dove, quel giorno, si trovava la mia ed altre compagnie del 2° Genio. Nulla sospettavamo noi semplici soldati, ma neanche i nostri ufficiali e comandanti erano al corrente di cosa fosse stato già deciso da alcuni giorni dal Governo e dal Comando Generale di Roma. All’improvviso, intorno alle ore 20,30, vedemmo entrare nel salone della mensa il nostro Colonnello comandante preceduto da altri ufficiali; uno di questi, ad alta voce, chiese a tutti noi la massima attenzione per una importantissima comunicazione che il Colonnello doveva darci. Nonostante fossimo ormai abituati, dopo tre anni di combattimenti, alle brutte notizie, dall’evidente aria preoccupata che sul volto mostrava l’alto Ufficiale, intuimmo doversi trattare di qualcosa di molto grave. Cessò immediatamente l’assordante rumore che provocavano le centinaia di gavette di alluminio utilizzate da noi soldati per mangiare e nella grande sala regnò di colpo un silenzio quasi irreale. Il Colonnello, vero padre di famiglia, persona di grande acume ed intelligenza, ci disse che qualche minuto prima aveva casualmente appreso, ascoltando la radio, il proclama del Maresciallo Pietro Badoglio che annunciava l’avvenuto armistizio con gli anglo-americani. Aggiunse che Nessun ordine gli era giunto dal Comando Generale sul comportamento da tenere e intuendo “autonomamente” cosa a breve potesse accaderci, aggiunse < . . . ragazzi, senza perdere un minuto di tempo, toglietevi di dosso la divisa militare, indossate gli abiti civili e datevi immediatamente alla macchia, perché ritengo che da qui a qualche ora i tedeschi verranno ad arrestarci tutti e nella migliore delle ipotesi trasferirci nei campi di lavoro o di concentramento della Germania >.
La poverissima cena - il rancio - dei militari italiani
Non completammo neanche il povero pasto, corremmo invece tutti nelle nostre rispettive camerate, il tempo di cambiarci d’abito, raccogliere ed infilare nello zaino le poche cose che avevamo e nel buio della sera, dividendoci, fuggimmo verso la campagna. Il pensiero dominante in quei terribili attimi, oltre alla paura di essere catturati dai tedeschi, considerati disertori e quindi essere fucilati sul posto, era il desiderio di tornare in Sicilia, nella mia casa, dai miei genitori che non vedevo da oltre tre anni. Feci coppia con un commilitone mio conterraneo del catanese, di cui però non ricordo più il nome, ed insieme ci incamminammo in direzione Sud. Sapevamo che la Sicilia e buona parte del meridione, erano state già liberate dagli alleati, ma avevamo anche notizia che tutta l’Italia settentrionale era ormai nelle mani dei tedeschi da cui bisognava guardarsi bene e non farsi catturare. Decidemmo pertanto, nel nostro viaggio di ritorno verso casa, di stare lontani dalle strade e camminare solamente attraverso i sentieri dei boschi e delle montagne. Per orientarci seguivamo le linee e i pali dell’alta tensione che sapevamo andare sempre a finire nei centri abitati, da cui però ci tenevamo ben lontani in quanto presidiate dalle truppe tedesche. Quando poi attraversavamo territori ove la presenza dei tedeschi era più massiccia, lo facevamo muovendoci di notte e rimanendo nascosti durante il giorno. Ci sfamavamo con quanto trovavamo nelle campagne e qualche volta anche aiutati da qualche contadino.
Dopo circa 20 – 25 giorni di marcia, sopportando fatica, fame e con sempre la paura di venire catturati, giungemmo nei pressi di Roma. Sulla via del ritorno, in Umbria, da alcuni civili avevamo saputo che la capitale era stata dichiarata - Città Aperta - pensavamo, quindi, che non ci fossero truppe tedesche o che addirittura vi fossero già giunti gli americani. Niente di più sbagliato. I tedeschi di fatto l’avevano occupata ed erano ancora li, ma noi non lo sapevamo. Io e il mio compagno decidemmo pertanto di entrare in città, chiedere aiuto a qualcuno, rifocillarci, riposarci e poi riprendere la via del ritorno. Avemmo invece un’amara sorpresa: attraversavamo una delle tante vie del centro della capitale e, purtroppo, ci imbattemmo in una pattuglia di sodati tedeschi che immediatamente ci bloccarono puntandoci contro i loro mitra. Ci urlavano qualcosa nella loro lingua, ma chi li capiva!
Terrorizzati pensavamo ormai al peggio. Ma evidentemente non era ancora giunta la nostra ora. Forse assistiti dal buon Dio, in quegli attimi concitati una macchina che transitava lentamente lungo quella via, notando la scena, si fermò accanto a noi, ne scese un signore distinto che si rivolse immediatamente al drappello di soldati in perfetta lingua tedesca. Tra di essi ne seguì una breve discussione che noi naturalmente non comprendevamo, dopodiché questi abbassarono le armi che ci avevano puntate contro e senza dirci alcun ché, andarono via. Ancora terrorizzati e tremanti dalla paura venimmo sollecitati da questo ”Angelo custode”, che ci aveva salvato da sicura morte, a salire sulla sua macchina. Con le lacrime agli occhi non ci stancavamo di ringraziare questa splendida persona che, senza neanche conoscerci, era intervenuto in nostro soccorso. Il nostro salvatore era un giornalista appartenente ad una ricca e nobile famiglia romana, evidentemente ben conosciuto dalle forze di occupazione tedesche.
Subito dopo averlo ringraziato, incuriositi, gli chiedemmo come fosse riuscito, parlando la loro lingua, a convincere quel drappello di tedeschi a lasciarci andare. Sorridendo ci rispose di aver detto loro che < . . non si tratta di soldati italiani disertori, bensì di due operai della mia tenuta di campagna che questa mattina ho mandato a Roma per degli acquisti e che quindi mi stavano aspettando in questa strada proprio per essere riaccompagnati al luogo di lavoro >.
Solamente una mente sopraffina, di grande coraggio, ingegno e nobiltà d’animo poteva in una frazione di secondo e alla vista di quella scena, decidere di intervenire in favore di due giovani sconosciuti inventandosi, all’istante, una banalissima ma efficacissima motivazione. Di fatto ci condusse nella sua tenuta di campagna alla periferia di Roma, e dopo averci rifocillati ci consigliò di rimanere li, come fossimo realmente suoi operai, anche perché i tedeschi sicuramente nei giorni successivi avrebbero controllato la veridicità di quanto dichiarato. Poi una volta calmate le acque e liberata Roma, che si sperava avvenire presto, saremmo potuti andare via. Le cose invece non andarono come speravamo. I tedeschi opposero una fortissima resistenza all’avanzata alleata e solamente 9 mesi dopo, il 4 Giugno 1944 la capitale venne liberata dalle truppe anglo-americane. Durante tutti questi mesi il nostro “ Angelo custode” – che se non ricordo male apparteneva alla nobile famiglia romana dei Turcini - continuò ad ospitarci nella sua tenuta e noi in cambio lavoravamo in quell’azienda. Qualche mese dopo (rimanemmo li quasi un anno), passato il pericolo, esprimemmo la volontà di poter riprendere il viaggio di ritorno in Sicilia e riunirci alle nostre famiglie. Ricordo che insistette affinché rimanessimo, in qualità di operai, a lavorare nella sua azienda, ma poi intuendo il nostro stato d’animo – non vedevamo i nostri cari da oltre 4 anni, ne avevamo di loro alcuna notizia - a malincuore e ringraziandoci per il lavoro svolto, ci lasciò riprendere il viaggio per la Sicilia. Qualche giorno dopo giunti a Villa San Giovanni, trovammo un barcaiolo che in cambio di un po’ di biancheria di cui disponevamo, si presto a farci attraversare lo Stretto. Giunti a Messina, sempre procedendo a piedi, riprendemmo la strada che ci portava a Randazzo dove giungemmo nella tarda mattinata del giorno dopo. Li si separarono le strade con il mio commilitone che proseguì in direzione di Bronte – Adrano. Purtroppo non ricordo il nome di questo mio compagno di traversie, ne esattamente di quale paese fosse. L’unica cosa di cui sono certo è che abitasse in un paese non troppo lontano dalla mia Randazzo”.
Passano gli anni e mio padre che nel corso della sua vita ne aveva passate di tutti i colori - le vicissitudini della Guerra, tre gravi incidenti di lavoro, per uno dei quali rimase anche per diversi giorni in coma, ed infine una complicata disfunzione cardiaca che, Il 3 di Maggio del 1985, dopo non poche sofferenze, lo condusse a rendere l’anima a Dio ad appena 67 anni di età. Ero allora dipendente del Banco di Sicilia e in quell’anno prestavo la mia attività lavorativa presso la stessa Filiale di Randazzo.
Ed ecco accadere una cosa che sa del’incredibile. Appena qualche giorno dopo il funerale, ero già rientrato al lavoro, viene a cercarmi in Banca il sig. Giuseppe Palermo, nostro cliente, dicendomi che un signore, forestiero, entrando nella sua rosticceria di Via Roma, chiedeva di un certo Sig. Rizzeri. A Randazzo con questo cognome siamo solo due famiglie, pertanto il sig. Palermo pensò potersi trattare di me. Fece aspettare questo signore nel suo locale e non avendo telefono venne personalmente a dirmelo. La rosticceria del buon sig. Palermo era poco distante dalla Filiale del Banco pertanto anch’io mi recai a piedi curioso di sapere chi mi cercasse. Ebbene si trattava di quel compagno di disavventure del mio povero padre, che dopo ben 40 anni era venuto a Randazzo per rivedere l’amico e riabbracciarlo.
Lui si ricordava benissimo il nome e il paese di mio padre con cui, in fuga da Piacenza, passando per Roma e dopo un anno trascorso insieme, tra tante peripezie, si erano poi divisi proprio a Randazzo. Coincideva anche quanto da sempre ripeteva mio padre:
“ . . . . non ricordo più il nome del mio compagno che però doveva essere di un paese della nostra zona, non lontano da Randazzo “.
Quel signore infatti abitava ed era un cittadino di Biancavilla.
Lo ringraziai per non essersi mai dimenticato del suo amico Vincenzo, che pur non ricordandone il nome lo aveva sempre tenuto nel suo cuore. Aggiunsi che purtroppo era deceduto da appena qualche giorno. Lessi sul suo volto la sorpresa e il dispiacere e dopo esserci salutati andò via.
La sorte avversa non aveva consentito a questi due - Veri amici - neanche potersi reincontrare e riabbracciarsi. Non so se questo signore possa essere ancora in vita, sarebbe ultracentenario, ma sono certo però che nel mondo dei più avranno entrambi modo di rivedersi e ricordare i brutti momenti passati insieme nel bel mezzo del più tremendo conflitto mondiale che la storia ricordi.
Tengo a precisare che nel corso del conflitto il Governo che nel 1945 subentrò a quello del Maresciallo Badoglio, conscio dei gravissimi disastri con decine di migliaia di militari italiani fucilati e deportati, rimasti senza direttive da parte del re e del Governo Badoglio, che vigliaccamente pensarono solo a mettersi in salvo rifugiandosi a Brindisi, emanò la Circolare n. 318 che riconosceva la “continuità del servizio militare effettivo” a tutti i soldati e agli ufficiali che a motivo dell’ “Ambiguo messaggio dell’8 settembre 1943 , per sfuggire alle rappresaglie delle milizie tedesche, furono costretti a - sbandarsi -, dandosi alla macchia”.
Questo il contenuto finale del “Foglio Matricolare” di Rizzeri Vincenzo al paragrafo 44 e seguenti:
“ Sbandatosi in seguito agli eventi sopravvenuti li, 8 Settembre 1943 - 44
all’armistizio e rifugiatosi a Roma.
Considerato in servizio dal 9 Settembre 1943 al li, 9 Settembre 1943 - 45
4 Giugno 1944 - Circ. 318 C. M. 1945. -
Tale posto in licenza illimitata li, 4 Giugno 1944 - 46
Collocato in congedo in ottemperanza della
Circolare M.D.E. n. 22760 li, 19 Settembre 1945 - 50
13 Agosto 1943 - Gli Americani occupano Randazzo
Il Ministero del Tesoro, Direzione Generale delle Pensioni di Guerra, a seguito di domanda di concessione del previsto assegno mensile per i reduci di guerra che avevano riportato ferite in combattimento, o per malattie permanenti acquisite durante il servizio prestato (21 Marzo 1939 - 19 settembre 1945) con decorrenza 1° Luglio 1961, e solamente fino al 30 Giugno 1965, assegnava al Geniere Vincenzo Rizzeri, per infermità contratta in guerra - esiti di pleurite basale dx con sinfisi costo frenica - la Cat. 8^ Tab. D (praticamente l’ultima categoria) e solamente in quanto vennero trovati i documenti di ricovero - 10 agosto 1940 - presso l’Ospedale Militale di Piacenza e poi in quello di Messina, un Assegno (Pensione . . . Privilegiata ..!!?) - udite, udite - di Lire 64.800 lorde annue, pari a Lire 5.190 mensili netti, oggi equivalenti ad € 2,68 e solamente per 4 anni. Non gli venne riconosciuta la ferita di scheggia al braccio sinistro, che rimase parzialmente difettoso, ricevuta durante un bombardamento alleato nel Marzo del 1942 mentre era in servizio al campo n. 41 per prigionieri di guerra di grado superiore dell’esercito inglese di Montalbo, Comune di Ziano Piacentino, in quanto non si trovarono i relativi documenti. (Raccontava mio padre che la scheggia fuoruscì lesionando un tendine ma senza ledere l’osso e venne pertanto medicato alla meno peggio sul posto dai sanitari della Compagnia).
Questo il vergognoso prezzo che riconobbe lo Stato Italiano ad un suo servitore quale corrispettivo di 78 mesi di lavoro, battaglie, stenti, privazioni, malattie e costantemente in compagnia di “quella signora vestita con una tunica nera munita di cappuccio, che brandisce una “grande falce”.
Il Certificato di “pensione” con scadenza 30 giugno 1965
Convoglio americano in Via Marotta
Randazzo - Corso Umberto I