Il 1860 in Sicilia

Il 1860 in Sicilia

Maristella Dilettoso

Il 1860 in Sicilia

Garibaldi, Bixio ed altro ancora

Pubblicato su Cultura e Prospettive, n. 9, ottobre-dicembre 2010, Supplemento al N. 4, anno XI, della rivista culturale Il Convivio, Trimestrale di Poesia Arte e Cultura, organo ufficiale dell’Accademia Internazionale Il Convivio.

Non s’è spenta ancora l’eco delle celebrazioni per i 150 anni dall’Unità d’Italia, dal 1860, data che vide riuniti sotto una sola bandiera, un solo sovrano, i tanti stati e staterelli in cui, fino a poco prima, era suddivisa quella che, infelicemente, il principe Clemens von Metternich aveva definito “un’espressione geografica”. Ma proprio queste celebrazioni hanno messo in luce e fatto riemergere, al di là dell’agiografia, dell’epopea narrataci, secondo qualcuno inculcataci, dai libri di scuola, le contraddizioni e le zone d’ombra insite nell’impresa dei Mille, ancor più in un tempo di federalismi, di frammentazioni, com’è quello che stiamo vivendo. Certo, i tanti interrogativi sorti, farebbero dubitare dell’utilità, dell’autenticità, degli ideali stessi che animarono il Risorgimento, quel concerto di idee e fatti che hanno condotto all’unità d’Italia, e, vivendo e pensando nel profondo sud, non è facile esimersi da certe considerazioni ed analisi.

Proprio negli anni in cui si inaugurava il Canale di Suez, e si aprivano nuovi e vasti orizzonti, sancendo la centralità del Mediterraneo, tristi vicende si apparecchiavano in casa nostra.

L’epopea garibaldina tuttavia, e malgrado tutto, non smette di sedurci, di coinvolgerci, pur con tutte le ombre proiettate sia sul “prima” che sul “dopo”. I fatti di Bronte, ad esempio, sdoganati finalmente da censure non troppo, né sempre, disinteressate, hanno alimentato letteratura e cinematografia, basti pensare alla novella di Verga, Libertà (1882), e al film di Florestano Vancini, Bronte, cronaca di un massacro (1972).

Quanto avvenne a Bronte, “Il paese in cui venne al pettine della storia la generosa ambiguità del garibaldinismo, del Nino Bixio sceso con Garibaldi in Sicilia per liberare i contadini del feudo che qui ne fa passare 5 per le armi, in difesa del feudo” (Giorgio Bocca) ha acquistato nel tempo un valore emblematico, Bronte divenne un caso simbolo, ma non certo isolato.

Nel 1860, alla venuta di Garibaldi, erano sorti in Sicilia numerosi Comitati segreti filo-garibaldini, la cui azione sfociò in alcuni casi in aperte rivolte, in altri in veri e propri eccidi con le conseguenti, feroci ritorsioni. Insurrezioni vi furono a Bronte, Adernò, Regalbuto, Biancavilla, Nicosia, Cesarò, Polizzi, Randazzo, Maletto, Cefalù, Petralia, Resuttano, Castelnuovo, Montemaggiore, Capace, Tusa, Castiglione, Collesano, Racalmuto, Centuripe, Mirto, Caronia, Alcara Li Fusi, Nissoria, Cerami, Mistretta…

L’equivoco era nato, con tutta probabilità, dal proclama di Garibaldi del 2 giugno 1860, da Palermo:  “Giuseppe Garibaldi comandante in capo delle forze nazionali in Sicilia, in virtù dei poteri a lui conferiti, decreta: Art. 1. Sopra la terra dei demani comunali da dividersi, giusta la legge, fra i cittadini del proprio comune, avrà una quota senza sorteggio chiunque si sarà battuto per la patria…”, ecc. Alimentando tante illusioni e speranze, il Decreto in pratica prometteva la terra ai siciliani che avessero imbracciato le armi, ma non sarebbe mai stato applicato, provocando così ribellioni a catena.

Non ripeteremo quanto avvenne a Bronte, in quei giorni d’agosto, tanto l’argomento è stato trattato su libri, articoli, convegni e dibattiti. Basti notare come fosse opinione diffusa che con la rivoluzione sarebbero tornati alla comunità i possedimenti della Ducea Nelson: questa infatti era una donazione impropria, fatta dai Borbone (la Ducea era stata concessa da Ferdinando di Borbone in feudo a Orazio Nelson nel 1799 come ricompensa per avere represso la repubblica partenopea ed averlo rimesso sul trono), e secondo l’idea comune, una volta decaduti i Borbone essa sarebbe decaduta con loro. Inoltre Bronte aveva perso, di recente, gli usi civici sui beni dell’abbazia di Maniace e Fragalà, con ulteriore immiserimento dei cittadini più poveri, che su queste terre avrebbero dovuto esercitare diritti di legnatico ed altro. Addirittura, se sorpresi a far legna nelle terre della Ducea o del Comune, essi venivano multati pesantemente, messi in carcere, e finanche sottoposti a pene corporali.

Certo, nella rivolta di Bronte si effettuarono eccidi ed efferatezze gratuite, da una folla inferocita che aveva covato la vendetta per anni, e il testo di Benedetto Radice ne è la testimonianza (quasi diretta, l’autore aveva allora 6 anni) più veritiera e impressionante. 

Ai primi tumulti, il console inglese a Catania, Goodwin, aveva scritto a Garibaldi perché mandasse “soccorso di soldati” a Bronte, Bixio vi giunse il 6 agosto, su una carrozza noleggiata a Randazzo da un Vagliasindi, seguito da 2 battaglioni, altri 4 battaglioni dislocò a Castiglione e Linguaglossa, 2 a Randazzo, fu ospitato a Randazzo dal Barone Giuseppe Fisauli, e in breve represse la rivolta nel modo che tutti sappiamo.

Il rigore di Bixio si può anche spiegare con le sollecitazioni del console inglese. Sono infatti ancora da definire i contorni dei rapporti di Garibaldi, al momento dello sbarco in Sicilia, con la marina inglese, “in realtà senza gli inglesi Garibaldi non sarebbe sbarcato a Marsala, e forse non ci sarebbe stato il Risorgimento” (Bocca). Secondo l’interpretazione di qualche storico, addirittura, la spedizione dei Mille sarebbe stata suggerita ai Savoia, forse anche finanziata, dagli inglesi, che vedevano ostacolate le loro mire espansionistiche nel mediterraneo dalla presenza borbonica. I contadini di Bronte, dunque, non potevano lontanamente sperare che una sola pietra di proprietà britannica sarebbe stata toccata.

Questi fatti avrebbero ispirato la novella Libertà di Giovanni Verga, in seguito tanto contestata, soprattutto da Sciascia, che forse con eccessivo livore accusa lo scrittore di mistificazione ed omertà. È vero, Verga non accenna all’aspetto economico e giuridico della controversia per le terre demaniali, alle fazioni presenti in paese, al rientro di evasi dalle carceri borboniche, tornati in giro a fomentare rivolte, non spiega le ragioni politico-militari della repressione, la sentenza…, è vero tutto questo, ma Verga non fa opera di storia, di sociologia, di cronaca, bensì opera di letteratura, e di alta letteratura, in coerenza alla poetica del verismo. In Libertà non vi è ironia, dissacrazione o partigianeria, il racconto è altamente drammatico quanto più asciutto ed icastico. Va notato poi come la parola “libertà” percorra la novella dall’inizio alla fine, ed ogni volta con una connotazione e una valenza diversa: vera carica polisemica della parola. Ci sono le prime e le seconde vittime, ed a tutte l’autore rivolge lo stesso sguardo equidistante, senza speranza ma carico di umana pietas. La seconda parte, quella del processo, ha tempi più lenti, mentre la prima, quella della rivolta, è più concitata: c’è la tragedia della folla scatenata, la furia omicida che tutto travolge, ed i sogni dei contadini che già sfumano, si stemperano e si vanificano il giorno seguente. La conclusione è coerente con lo scientismo verista, senza spazio per gli ideali, per le riforme, per l’ottimismo romantico delle rivoluzioni, nel cielo dei vinti di Verga non spunta mai l’alba del riscatto.

A Randazzo, come in altri centri del comprensorio etneo, quali Castiglione e Linguaglossa, avvennero fatti paralleli e collegati a quelli di Bronte, che fortunatamente si conclusero senza spargimento di sangue. Purtroppo scarseggiano documenti su questi fatti, quasi fosse stata stesa una cortina di partecipe silenzio.

La classe abbiente, quella che, di fatto, esercitava il potere, o almeno gli esponenti più lungimiranti, ai primi sentori di cambiamento ebbero l’accortezza di accostarsi ed aderire alle idee liberali, senza per questo avvicinarsi minimamente alle classi popolari, né alle loro aspettative.

Il popolo, dal canto suo, era ben lungi da ideali di unità nazionale, patria, ma era preso da interessi molto più immediati, come le terre demaniali godute illegalmente da altri, l’abolizione di tasse e balzelli, specie l’odiosa tassa sul macinato.

In effetti a Randazzo si aspettava da anni che il Comune decidesse in merito ai diritti promiscui ed usi civici sulle terre demaniali, cui si contrapponevano gli interessi dei possidenti interessati, e con l’ondata rivoluzionaria  parve giunto il momento di risolvere la questione.

Con l’arrivo di Garibaldi e l’instaurazione del primo Governo, i vari comitati cittadini presero coraggio, a Randazzo l’anima del comitato locale era il barone Tommaso Romeo, trait d’union col comitato di Bronte, ma tra i civili vi aderivano anche dei Vagliasindi e dei Fisauli, anzi proprio mentre Garibaldi combatteva a Milazzo, questi fornivano vettovaglie, mezzi e bende per i feriti. La Guardia Civile a Randazzo sarà poi organizzata dalla stessa nobiltà, e farà capo al ceto egemone.

Tutto si svolse, e si concluse, nell’arco di pochi giorni, in concomitanza ai fatti di Bronte, dal 5 all’11 agosto. Il 5 vi furono i primi spari, la folla si raduna reclamando la liberazione di alcuni detenuti e si reca davanti al Circolo dei civili: si evitò il peggio grazie alla mediazione dell’Abate Romeo. Ma il giorno dopo si bloccarono le strade, si parlò di irrompere nelle case, e furono danneggiati e abbattuti alberi nelle proprietà di alcuni maggiorenti locali. A questo punto i baroni Vagliasindi e Fisauli chiesero l’intervento di Bixio. Al suo arrivo, si formarono a Randazzo diverse pattuglie, composte da garibaldini e guardia nazionale, che battendo alle case effettuano numerosi arresti: gli oltre 30 fermati sarebbero stati processati di lì a poco ad Acireale.

Da Randazzo Nino Bixio, ospite del barone Giuseppe Fisauli, scrive al Governatore di Catania, poi torna alla volta di Bronte. Scrive pure a Dezza: “Domani ritornate voi in Randazzo. Io sarò a Bronte per le fucilazioni, e poi ci vedremo a Randazzo”. Cinismo, decisionismo, ragion di stato? L’11 agosto parte da Bronte per la via di Randazzo, conducendo con sé un centinaio di prigionieri. Gli arrestati, assieme a quelli di Bronte e Maletto, furono deportati ad Acireale, in locali strettissimi (111 detenuti in 150 mq). Il 15 settembre viene emessa la sentenza: 17 furono scarcerati ma messi sotto sorveglianza, gli altri condannati alla pena dei ferri per 19 anni.

Il racconto del processo a questi rivoltosi di Randazzo richiama alla mente il processo descritto dal Verga in Libertà. Con tempismo, il 17 settembre il Consiglio civico decise di dedicare a Nino Bixio la Porta del Carmine (la stessa da cui era entrato) per avere salvato il paese, e più tardi, nel 1934, scomparsa ormai la porta, gli avrebbe intitolato una piazza.

Un anno dopo, nel 1861, Luigi Palermo, che risultava in cima alla lista degli arrestati, avrebbe scritto Memoria dei diritti promiscui del Comune di Randazzo, rovente opuscolo che elenca tutte le appropriazioni che sarebbero state perpetrate, nel corso degli anni, da vari notabili della città sulle terre demaniali a danno dei ceti più deboli, producendo nomi e circostanze, per giungere alla rivoluzione del 1860, dove, a suo dire, nel timore che i singoli potessero reclamare i propri diritti, gli usurpatori, “trovando un addentellato nella subitaneità ed inganno del Comandante Bixio che transitava per Bronte”, fecero eseguire numerosi arresti a danno di “buoni cittadini”, deferiti poi alla Corte Speciale di Acireale, che “condannò 15 sventurati padri di famiglia a 19 anni di ferri per nulla”.

Tra gli episodi paralleli, significativi i fatti di Alcara li Fusi, dapprima collegati alla rivolta popolare, come per Bronte e altri centri, ma dopo un’analisi più critica e attenta letti in chiave diversa.

A Patti, sulla piazza antistante alla chiesa di S. Antonio Abate, c’è una lapide che dice: Su questo piano / a seguito della rivolta / di Alcara Li Fusi / il 20 agosto 1860 / in esecuzione della sentenza / della Commissione speciale di giustizia / furono fucilati / dodici cittadini alcaresi / colpevoli di eccidio / vittime di antichi soprusi

Cos’era accaduto? Il 17 maggio, giorno dell’Ascensione, un folto gruppo di gente, pastori, carpentieri, giungono in paese, entrano nel circolo cittadino, e all’improvviso massacrano 11 persone, tra cui 3 ragazzi, con estrema ferocia, proseguono con saccheggi, rapine, incendi, scrocchi, danno alle fiamme i documenti, dell’Archivio comunale, della banca, dei monasteri, del Monte Agrario (molti avevano contratto dei debiti), derubano le casse comunali, le devastazioni durano 40 giorni, finché qualcuno scrive a Garibaldi. In effetti, il Generale, in quei giorni, non era ancora nemmeno entrato in Palermo, era sbarcato da poco e stava combattendo, non aveva ancora emanato il proclama del 2 giugno, che prometteva le terre a chi avesse imbracciato le armi.

Ecco perché i fatti di Alcara costituiscono un episodio atipico, rispetto agli altri, come bene dimostra lo studio di Alfonso Sidoti. Dopo attenta e documentata disamina, resa possibile solo con l’accesso agli archivi vaticani, e la visione di atti secretati, in quanto si ipotizzava il concorso di 2 sacerdoti, si è riscontrato trattarsi di “miserabili rivalità familiari”, di un’esplosione di interessi particolari. Nessuna ideologia politica o rivendicazione sociale, ma solo voglia di vendette e rapine, anche tra rami di famiglie consanguinee. Dagli atti della Corte di Palermo emergerà la responsabilità di un avvocato e di due suoi figli sacerdoti, quali organizzatori e mandanti, e la presenza, tra gli esecutori degli eccidi, di loro dipendenti, o gente comunque legata loro.

Anche qui interviene Garibaldi, da Palermo manda il colonnello Interdonato, che giunto sulla piazza di Alcara prima stringe la mano ai rivoltosi tutti, dopodiché li disarma ed arresta. I 12 apertamente coinvolti negli eccidi saranno rinchiusi nel castello di S. Agata Militello, processati e fucilati a Patti.

Immediato il raffronto con quanto avvenne a Biancavilla, dove tra il 4 e il 7 giugno 1860 furono uccise 17 persone, e a Bronte, ma qui si trattò di scontri fra liberali e borbonici, c’era l’aspirazione popolare a una più giusta distribuzione delle terre comunali e alla riconquista della Ducea, mentre “i fatti di Alcara non hanno alcuna nobiltà, alcun ideale, non hanno legami con l’epopea garibaldina” (Sidoti)

Non è facile sbrogliare la matassa, e interpretare quanto avvenne in Sicilia prima e dopo il 1860.

Le masse avevano visto in Garibaldi il vendicatore di torti e ingiustizie, colui che avrebbe guidato la riscossa dei poveri contro i potenti, eppure i moti popolari scoppiati nel 1860 furono repressi duramente. Ma Garibaldi, per quanto riformatore, non era un anarchico, era venuto per attuare una rivoluzione politica, ma aveva bisogno dei proprietari. In effetti il potere sarebbe passato da Garibaldi a Cavour e al Parlamento di Torino, senza che i siciliani, data la tumultuosità degli eventi, avessero il tempo di rendersene bene conto.

Con l’Unità d’Italia fu sancita l’alleanza tra la borghesia progressista del Nord e gli agrari arretrati del Sud, e le masse contadine in realtà ne risultarono escluse. Alla fine, i potenti di sempre avrebbero trovato il modo di inserirsi nella nuova realtà, come bene avrebbero stigmatizzato Federico De Roberto ne  I Vicerè, e Tomasi Di Lampedusa ne Il Gattopardo.

Il Piemonte nel nuovo stato unitario ebbe un ruolo privilegiato ed egemone, e lo Statuto albertino fu esteso a tutto il nuovo Regno. Cavour, da parte sua, impose subito alla Sicilia le istituzioni piemontesi, ignorando le leggi siciliane. La Sicilia, che per tanti secoli aveva seguito un suo percorso storico, del tutto diverso dal resto della penisola, si vide imposte in breve tempo le norme piemontesi, il plebiscito diventò un’annessione incondizionata, e i sentimenti anti piemontesi di conseguenza crebbero subito per tutta una serie di ragioni.

Era inevitabile l’incomprensione coi funzionari venuti dal Nord, dal “continente”. Del resto il nuovo governo fu molto repressivo, ed attuò una politica diversa e discriminante tra Nord e Sud, politica che non permise di superare, ma anzi accentuò il dislivello e lo squilibrio già esistente tra le due parti del paese: si accrebbe il latifondo, la pressione fiscale fu pesantissima, aumentò l’emigrazione, la coscrizione obbligatoria, che risultò la cosa più invisa (i ricchi fra l’altro potevano comprarsi l’esenzione), sottrasse tante braccia all’agricoltura. Anzi, dal momento che per sfuggire alla leva molti si davano alla macchia, renitenti e disertori ingrossarono le file della malavita, e con un siffatto clima, favorevole al nascere di bande armate, il brigantaggio crebbe anziché diminuire.

Il brigantaggio (alimentato anche, da lontano, dalla monarchia borbonica) fu lo sfogo estremo per una mancata rivoluzione agraria, di una società che non aveva trovato spazi per esprimersi nel nuovo regno unitario.

Il 1861 per il sud non fu la svolta progressista sperata, niente riforma agraria, niente istruzione popolare, il Nord, già più avanti economicamente, progrediva ancora di più, mentre il divario con il Sud si accentuava.

L’introduzione di leggi anticlericali piemontesi (abolizione dell’Apostolica Legazia nel 1871, legge Siccardi nel 1866) fu un altro motivo di disorientamento, con l’esito che enormi proprietà della Chiesa finirono per transitare ai latifondisti, sempre più avidi.

La Questione meridionale non fu che la conseguenza, l’esplosione delle contraddizioni implicite nell’annessione al regno.

Fatti gravi, e a tutt’oggi controversi, non del tutto noti, e sui quali è difficile indagare data la non sempre casuale sparizione di tanti atti, ma è inevitabile chiedersi, alla fine, se tanto sangue, tanti eccidi, siano stati veramente necessari al raggiungimento dell’Unità d’Italia, al raggiungimento di una giustizia sociale.

 

Bibliografia

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