La Peste di Randazzo del 1575-1580

La Peste di Randazzo del 1575 - 1580

LA  PESTE  DI RANDAZZO  1575 – 1580

di

Salvatore Rizzeri

Di questa terribile epidemia ne fa una minuta e precisa descrizione il Cappuccino Padre Luigi Magro da Randazzo, al cui racconto aggiungiamo qualche precisazione e i brevissimi cenni di quanto accaduto nello stesso periodo alle città di Palermo e Messina, luoghi da cui il morbo si diffuse in tutta l’Isola e riferitici da altri autori.

É necessario ritornare circa un ventennio indietro per non omettere una ben luttuosa disgrazia abbattutasi sulla nostra Città, sotto il Governo dello stesso Re Filippo II di Spagna.

La nostra Città è stata attaccata dalla peste due volte: la prima nel 1347 e la se­conda nell’anno 1575.

La prima volta fu liberata fin dal suo principio, mercè un voto fatto a S. Sebastiano e a S. Rocco. Al primo fu dedicata una Chiesa fuori la Porta di S. Martino, Chiesa che oggi è ridotta a semplice terreno, rimanendo solamente parte del campanile e qualche affresco nella pa­rete di essa che un ciuffo di edera, meglio che non gli uomini, ha difeso dalle intemperie. Al secondo fu offerto un quadro. Parleremo della seconda peste, secondo le notizie che ci sono pervenute e che si sono potute racimolare dai vari storici di Sicilia e concittadini.

Il famoso ed illustre medico Giovanni Filippo Ingrassia (1510 - 1580), riportato dal Mongitore nella Biblioteca Sicula, in una re­lazione stampata nel 1576 a Palermo presso Giovanni Antonio Maida, parla del “ Pestifero e contagioso morbo “ che afflisse la Città di Palermo e molte altre città e terre del Regno di Sicilia nel 1575-1576 ”.[1] 

Ma cosa accadde alla fine della primavere e all’inizio dell’estate del 1575 a Palermo, Messina e alle città di mare, in quanto più facilmente raggiungibili dalle navi provenienti da località ove già imperversava il terribile morbo, che immediatamente si diffuse ai centri dell’interno dell’Isola?

A Palermo era precisamente la mattina del 9 Giugno, giorno in cui si trovò, nel quartiere di San Domenico una donna morta e dopo di lei anche un uomo, un mercante di tappeti, un certo capitano di un brigantino proveniente dalla Barbaria, (Nordafrica) che aveva avuto con lei rapporti sessuali. Non si trattava di delitti passionali, ma dei primi casi di peste a Palermo. Riferiscono i diari di due storici palermitani, Palmerino e Paruta:

“l’innamorato di detta donna e
tutti di casa di una febbre con certi vozzi all’ancinagli,
l’uno imbiscandola all’altro”

La peste dilagava a Palermo e ben presto infestò tutta la Sicilia. Furono chiuse le porte della città e i varchi delle due sole porte aperte, erano altamente controllate per evitare che i contagi aumentassero. In tutte le case c’era gente che moriva. il Senato palermitano decise allora di chiamare a consulto un gran medico di quei tempi, il Dott. Gian Filippo Ingrassia che insieme ad una equipe di colleghi studiarono il rimedio per bloccare la terribile virulenza. E’ a questo luminare che Palermo deve la sua riconoscenza per la salvezza, al suo ammirabile intelletto e al suo prodigarsi per abbattere questo mostro che era la peste. Passarono ben 11 mesi di lotta prima che la peste si debellasse del tutto. Palermo perse circa 3100 persone. I malati infetti vennero barricati dentro casa, vennero chiusi il convento di San Francesco e quello di San Domenico, in quanto i frati si infettarono l’uno con l’altro. La città era un inferno, roghi dappertutto, per ordine dei medici, roba, letti, materassi della gente appestata dovevano essere bruciati. Dolore e disperazione nelle famiglie che si vedevano morire da un giorno all’altro. Delinquenza e teppismo non mancarono, vennero sorpresi ladri che rubavano cose infette e gravissime pene vennero loro date, qualcuno venne bruciato, altri impiccati, altri ancora mandati a sfracellarsi precipitandoli dall’alto dello Steri. Gli ammalati venivano barricati in casa per fermare il contagio e poi trasportati nei due grossi presidi che si trovavano alla Cuba e nel Borgo di Santa Lucia. Successe di tutto; i malati non si dichiaravano per non lasciar bruciare il loro arredamento, si disse pure che i medici non volevano trovare la medicina per questa epidemia perché altrimenti sarebbe venuto meno la loro parcella. Fu per questo motivo che il Dott. Ingrassia sdegnato, rinunciò del tutto al proprio stipendio. Egli fu molto generoso nel dare cura e soccorso agli ammalati. Scrisse un libro che intitolò “Informatione del Pestifero et Contagioso Morbo” che conteneva le sue riflessioni su questa esperienza. La peste durò fino alla primavera del 1576 e solo in estate si dichiarò completamente.[2]  

A Messina L' epidemia arriva a bordo di un mercantile genovese proveniente da Patrasso, dove la peste infuriava. La nave era stata contagiata, alcuni uomini dell'equipaggio erano morti. Ma il comandante aveva falsificato i documenti; il mercantile era stato ammesso nel lazzaretto e anche se proveniente da un porto sospetto, la quarantena non aveva fermato l'abituale contrabbando. I risultati furono disastrosi, morì il 71,5 per cento della popolazione, circa quarantamila persone. Il contagio riesce a passare lo Stretto, a Reggio Calabria i morti furono più del 50 per cento e non mancano le esecuzioni sommarie per chi è sospettato di mettere a rischio la salute pubblica.

 Nella “Cronologia Compendiata”  leggiamo:

Accadde in Messina, in Reggio ed in altri paesi della Calabria, una grande mortalità di gente, a cagione di una peste che si sviluppò e che fu portata a Messina, come si credette allora, da una Goletta, che vi approdò da Levante.

Ma negli altri punti di Sicilia, entrato l’anno 1577, cominciò a cessare la peste che vi serpeg­giava, mercé i provvedimenti dati dal Vicerè Marco Antonio Colonna Duca di Tagliacozzo”. 

Troina, attaccata anch’essa dal morbo venne liberata per intercessione di S. Silve­stro Troinese la cui immagine con grande convinzione dei cittadini, venne portata per il paese come ne fanno testimonianza le Lezioni del Breviario per l’Ufficio proprio del Santo.

Randazzo ha sofferto più delle altre città, perché il contagio si protrasse per circa cinque anni, dal 1575 al 1580.  Ecco come ci viene riferita questa grave sciagura capitata alla nostra Città.

“Correva l’anno 1575 quando faceva ritorno in Randazzo sua Patria, proveniente da Tunisi ove era stato detenuto schiavo, un certo Messenzio di Demetrio, bracciante.

Avendo questi portato una tovaglia omerale di lana, tessuta in Sorìa, la quale poteva adattarsi ad uso di Chiesa, la offrì all’Arciprete di quel tempo D. Giovanni Emanuele che, per divina ispirazione, si astenne dal toccarla. Volendo però acquistarla per uso della Parrocchiale Chiesa di S. Maria, fecela os­servare dai Parrocchiani che trovavansi presenti onde sentirne il loro parere.

Ma purtroppo quante persone la maneggiarono, tante ne furono attaccate da subita­neo gravissimo dolor di capo così intenso da produr loro la morte prima delle ore venti­quattro. I più robusti morivano non oltre i dieci giorni. Chiamato a visita subito l’eccellente Dottore Filippo Cipolla, esternò questi la sua diagnosi, manifestando a tutte le Autorità del Comune di esser questa vera peste Asiatica.  Essendo tutte le persone attaccate di tale morbo domiciliate nel quartiere di S. Maria ciò produsse che il primo ad infettarsi è stato il Distretto di questa Parrocchia, motivo per cui restò subitamente incordonato metà del piano di S. Maria, continuando il cordone sanitario per quella strada che arriva sino alla Chiesa dello Spirito Santo, (prima che gli eventi bellici dell’estate 1943 la distruggessero del tutto, sorgeva nell’attuale Via Cairoli). Ed all’opposta parte di tra­montana dal mentovato piano di S. Maria il suddetto cordone andò ad intersecare quel Pa­lazzo che indi fu posseduto, come in oggi lo è ancora, dalla famiglia Germanà.

Consigli Civici, riuniti nella Chiesa di S. Nicolò, elezione di Deputati Sanitari, un se­condo incordonamento che tagliò affatto la comunicazione con il Quartiere infetto, furono gli effetti delle prime sollecitudini dei Cittadini domiciliati nei due Quartieri di S. Martino e S. Ni­colò nei quali sul principio, godevasi perfetta sanità.

In seguito il male andò crescendo, specialmente nella calda stagione a tal segno che ai 24 agosto 1578 si tenne un Civico Consiglio, a cielo aperto, nel mezzo del piano di S. Maria sotto la Presidenza dello Spettabile Don Diego Sedegno Capitano d’Arme “ad pestem, qui destinato dal Governo, e dal Capitano Giustiziere della città il Magnifico Antonino Ca­val­laro, presenti solamente tre dei Magnifici Giurati che erano Pietro Lanza Barone del Moio, Giovanni Calderaro, Giovanni Tommaso Romeo ed uno dei Giudici Ideoti (cioè non Laureati) che era il Nobile Giovanni Maria Messina, essendo mancati i rimanenti ufficiali del Comune per causa della peste.  In questo Civico Consiglio è stato a pieni voti conchiuso dover prendere il Comune Onze cento di moneta di Sicilia a titolo di imprestito, onde impiegarsi questo capitale nella cura dei poveri appestati con provvederli di letto, di vitto e di medicamenti. Nello stesso Civico colloquio furono eletti i novelli Deputati Sanitari il nobile Don Giu­seppe Viader ed il nobile Valore Lanza.

Questo Civico Consiglio fu confermato dall’anzidetto Vicerè Marc’Antonio Colonna Duca di Tagliacozzo per via di Let­tere date in Messina a 16 settembre 1578.

In esecuzione di queste Lettere Vicereali, tre dei novelli Giurati della VIIª Indizione dell’anno 1578 i quali erano Giovanni Francesco Piccarda dei Baroni di Cianciana, Filippo Garagozzo ed Ercole Basilotta, s’imprestarono dall’Ospedale di questa Città Onze dieci an­nue per il capitale di Onze cento, quale somma fu loro consegnata dal Cassiere di esso Stabilimento che per tale funzionava allora il nobile Antonio Basilotta figlio di Giovanni Francesco.

Ciò dimostra l’atto soggiogatorio che fu stipulato in Randazzo per il Notaro Antonino Corrente a 17 ottobre 1578, in cui si legge succinto rapporto di quanto sopra si è detto.

Con queste Onze cento e con altro denaro raccolto da una volontaria contribuzione di tutti i possidenti, non escluso il Reverendissimo Arciprete Emanuele che sborsò denaro più degli altri, i Deputati Sanitari anzidetti Viader e Lanza fecero costruire cinque baracche di legname per servizio di Spedali agli infetti, tre per gli uomini e due per le donne.

Uno di tali Lazzaretti fu eretto nel piano laterale alla Chiesa di S. Maria dalla parte del Meriggio; altro nel piano del Monastero di San Giorgio e tre fuori le mura della Città al servizio degli infermi abitanti nei sobborghi, uno dei quali fu eretto nel Piano nominato di San Giuliano, uno nel Piano del Convento del Carmine e il terzo dietro la Chiesa del SS. Crocifisso della Pietà (Ecce Homo).

In tale Lazzaretto furono, con somma carità, ricevuti tutti gli ammorbati poveri. Le persone infette non povere furono obbligate a trasferirsi nei due Conventi cioè del Carmine (San Michele Arcangelo) e di S. Antonio Abbate, (conventino dei Padri Antoniani Viennesi - III° Ordine -). Era questo un ordine ospedaliero e monastico-militare, chiamati anche cavalieri del “Tau” a motivo della loro divisa formata da una veste e un mantello neri, sul lato sinistro del petto era cucita una Croce azzurra di sole tre braccia. Disconosciamo però il luogo esatto ove sorgeva, anche se di certo sappiamo che si trovava nel rione orientale della città. [3] Questi due monasteri vennero dichiarati Spedali delle persone infette si, ma non povere.

Quindi si costituirono i giornalieri salari ai Medici, ai Chirurgi, ai Barbieri, ai Guardiani ed aiutanti, e nel tempo stesso si diedero le provviste onde non manchino i medicamenti, il vitto, la biancheria dei letti ed assistenza d’ogni sorte in sollievo degli infetti pel servizio dei quali gratuitamente prestato, soprattutto si distinsero i due Cappuccini Padre Alessio Sacer­dote e Fra’ Placido Laico professo, ambedue di Randazzo.

Non è da dubitarsi che siano stati attaccati ed infetti gli altri due Quartieri di S. Nicolò e S. Martino, mentre sappiamo che una certa Agatuzza Imbrusciano, abitante nel quartiere di S. Nicolò non lungi dal Convento di S. Domenico, morì attaccata di peste in detto anno 1578 ed attesocché, prima di morire, affacciata alla finestra aveva detto ai vicini di casa di trovarsi essa attaccata di peste e che non potendo avere il Notaro per ricevere il suo testamento, lasciava la sua eredità allo Ospedale di questo Comune affidandosi alla loro testi­monianza. Fu perciò che il rettore dell’Ospedale, Matteo Basilotta, dietro di aver ciò verificato per via di testimoni ricevuti presso la Corte Civile di Randazzo, accettò l’eredità della defunta Imbrusciano e si pose, a nome di esso Ospedale, in possesso della casa in vigore di atto stipulato per il Notaro Corrente a trenta settembre 1578.

Attaccati dallo stesso contagio i due quartieri di S. Nicolò e S. Martino e divenuta con ciò maggiore la mortalità, entrato che fu l’anno 1579 i miseri Cittadini ridotti a stato così lacrimevole per via dei loro Deputati Sanitari ricorsero al Signor Vicerè residente allora in Messina, perché si fosse degnato di provvedere questa afflitta Città di Medici e medicine venuti già meno a cagione della peste. Accolse tosto le loro suppliche il Supremo Governante e spedì sollecitamente in Randazzo Medici e Chirurgi provveduti di medicamenti, accompagnati da un reggimento di Truppa Militare e da quattroCarnefici .

Tutti questi individui di unita al Capitano d’Arme ad pestem ed ai Deputati locali alla Sanità, senza usare umani riguardi nè possibili eccezioni di sorta, fecero attaccare fuoco a tutti i cadaveri che trovarono insepolti e fecero incendiare le case tutte che erano infette dal pestifero male e particolarmente tutte quelle esistenti nel quartiere di S. Maria dal punto del Cordone Sanitario in poi, e fuori le mura della Città, tutte le case suburbane, senza neppure eccettuarne una sola.

Durò quest’incendio per sei giorni continui con orribile spavento del popolo che, uscito fuori Città, si era rifugiato nelle campagne, per cui il mentovato quartiere restò quasi tutto incenerito a somiglianza degli altri suburbani quartieri che per molto tempo si osserva­vano ridotti in pochi casolari e in gran quantità di terreni nei quali si piantarono alberi di gelsi neri. Restò preservato da tale incendio il solo Monastero di S. Giorgio, come locale disabitato, attesochè la comunità delle Monache Benedettine sin dai primi giorni nei quali si andava svi­lup­pando la peste lo avevano abbandonato, recandosi nell’altro Monastero di S. Bartolomeo ove si fermarono per tutti e cinque anni della peste, cioè sino a tutto l’anno 1580.

All’inizio dell’anno 1580, si verificò qualche altro caso di morte, di natura pestilenziale e tra gli altri perdette la vita il virtuoso Arciprete D. Giovanni Emanuele il quale non lasciò passare mai un solo giorno, durante la peste, senza visitare i Lazzaretti e senza usare gli atti suoi misericordiosi verso gli Infermi appestati.

La sua morte avvenne nel periodo corso tra il 15 e il 24 del mese di giugno 1580, mentre il suo testamento quale egli avea fatto sin dal luglio 1578 apparve pubblicato in Randazzo per il Notaro Filippo Calvetto, addì 27 giugno 1580, tre o quattro giorni dopo la morte.

La tradizione ci dice essere stato tumulato il suo cadavere nel Cimitero della Chiesa di S. Giovanni Evangelista, sita fuori le mura di questa Città, perché per Decreto Sanitario non potevansi tumulare cadaveri nell’interno del Paese.

Una constatazione del tempo ci fa sapere con certezza che tra coloro che presta­vano servizio diretto agli appestati furono prodigiosamente preservati dal contaggio tre an­geli di vera carità: Il Sacerdote Don Antonino Nastasi che portava la Pisside quasi sempre in petto, comunicando per Viatico i moribondi appestati, e i due Cappuccini Randazzesi Padre Alessio e Fra’ Placido. Questo fra’ Placido, religioso ripieno di amore di Dio, sentì prepotente anche l’amore del prossimo.

In questa occasione per cui Dio afflisse la Città col fiero flagello della peste, egli si trasse il primo a voler servire gli appestati per tutto il periodo in cui perdurò il morbo con­tagioso cioè dal 1575 a quasi tutto il 1580. Appartenne alla religiosa Famiglia del Vecchio Convento sito fuori le mura (Sant’Onofrio) ove poi morì l’anno 1600 in età di 75 anni ed il suo cadavere rimase cinque giorni esposto alla pia devozione e riconoscenza del popolo che lo ritenne come un eroe di santità.

Il Padre Alessio primo di questo nome tra i Cappuccini Randazzesi, visse nel tempo in cui gemeva Randazzo sotto il luttuoso flagello della peste durante il quale si rese più che utile a tutti i suoi concittadini, ed ancor molto utile dopo che cessò il fiero contagio, con il Ministero della Divina Parola predicando allora più che in altra stagione al popolo di questa sua Patria. “Verbo et exemplo” cioè con la parola e l’esempio, spiegava all’aperto, nelle pubbliche piazze, perché i cittadini prudentemente evitavano le riunioni popolari dentro le Chiese, le otto Beatitudini esortando tutto l’uditorio ed animandolo col proprio esempio, allo spregio di questo mondo e dei beni fugaci, per conseguire il vero bene nel Cielo.

Ed era tale la fiducia ed il rispetto che riscuoteva dal popolo che, nel dì prezioso di sua morte, accorso a venerare la salma rivestita del Santo abito divenuta già bella e spi­rante soave odore, reputavasi fortunato colui che avesse potuto tagliare un pezzetto di to­naca per portarsela quale Reliquia. Tutti perciò lo piansero con lacrime di vera tenerezza manifestando fiducia nella sua intercessione presso Dio.

Non si potè sapere il vero numero di coloro che in tutto il periodo di cinque anni mo­ri­rono con la peste in Randazzo, mentre sono discordanti tra loro i nostri scrittori pae­sani.

Vi è chi dice che i morti di tutta la Città e di tutti i Suburbi ammontarono a ventidue mila per­sone, chi dice ventiquattro e chi finalmente trentadue mila individui, persuasi tutti costoro della vetusta tradizione che la città di Randazzo era stata un tempo numerata per ottanta­quattro mila abitanti per cui si meritò l’epiteto di URBIS PLENA. Questa cifra deve sembrare molto esagerata e toccò anche la suscettibilità dell’Abate Paolo Vagliasindi nella polemica col Vigo e col Plumari i quali per altro riferivano quello che ave­vano letto nei manoscritti lasciati dai vecchi scrittori di storia paesana.

Però Nicolò Speciale, nei “ Fatti e nella Vita di Federico II ”, scrivendo ciò che fece, nell’anno 1299, Roberto Duca di Calabria contro il Monarca Siciliano, scrisse: Randatium inter omnes Terras Vallae Demenae praestantiorem obsedit ”, cioè Roberto cinse d’assedio Randazzo la più importante tra tutte le terre del Val Demone. Sono questi tutti i dettagli arrivati a nostra cognizione intorno alla peste di Randazzo”.[4]

Personalmente ritengo che in considerazione del numero degli abitanti di allora, del fatto che quello pesantemente colpito fu soprattutto il quartiere di Santa Maria, quello centrale della citta, e per la lunga durata del morbo, il numero dei morti dovrebbe essere compreso tra le tre e le cinquemila unità. 

E’ chiaro che le cifre indicate dagli storici locali del tempo siano del tutto inappropriate, soprattutto in ordine all’effettiva consistenza della popolazione residente nella città quando nel 1575 si diffuse il terribile morbo.  

Randazzo, 18 Giugno 2019

                                                                                                                                        

[1] Padre Luigi da Randazzo: Cenni Storici della Città di Randazzo. 1946,  D. O. Inedito. Op. Cit. pag. 118 – 122.

[2] Serafina Stanzione - www.palermoviva.it/la-peste-a-palermo/

[3]  G. Plumari ed Emmanuele " Storia di Randazzo ",  Ms. 1849,  presso biblioteca  comunale di Palermo.        

[4]  Padre Luigi da Randazzo: Cenni Storici della Città di Randazzo. 1946,  D. O. Inedito. Op. Cit. pag. 118 – 122.