Avvenimenti Storici

1940 - 1945 Disavventure di un Militare

SECONTA  GUERRA MONDIALE

1940 – 1945

DISAVVENTURE DI UN MILITARE

 

REGIO ESERCITO ITALIANO

Rizzeri Vincenzo (mio padre)

di Salvatore e di Pappalardo Alfia di religione Cattolica

Matricola 2615 ex 211/bis

Nato a Randazzo il 22/11/1917 

Soldato di leva classe 1917, Distretto di Catania. Il 21 Marzo 1939 deve rispondere alla chiamata alle armi dei militari arruolati con la leva dei nati nel 2° e 3° quadrimestre della classe 1919.

Lo scoppio della 2^ Guerra Mondiale avvenuto il primo Settembre 1939 con l’invasione delle truppe tedesche della Polonia (l’Italia era ancora neutrale), nel mese di marzo del 1940 determina la “ferma” dei militari italiani prossimi al concedo per fine servizio, fra cui anche mio padre che in quei giorni si trovava a Randazzo per una licenza premio.

Il 15 marzo 1940 viene convocato alla Caserma dei Carabinieri di Randazzo dove riceve l’ordine di rientro al corpo per “Chiamata alle Armi”. (Il Primo Ministro Benito Mussolini in quei giorni aveva probabilmente già deciso la prossima entrata in guerra dell’Italia che sarebbe avvenuta ufficialmente il 10 Giugno di quell’anno). Il 17 Marzo 1940 raggiunge la destinazione assegnatagli (Piacenza) ed aggregato al 2° Reggimento Genio Pontieri di stanza in quella città. Nell’ambito del proprio reparto opera in diverse località lungo il corso del fiume Po, costruendo e riparando i ponti distrutti dai bombardamenti aerei alleati. Il 10 Agosto del 1940 viene ricoverato per 27 giorni all’Ospedale Militare di Piacenza ove gli viene curata una gravissima pleurite acquisita in quel periodo. Dimesso, dopo una licenza ed altro ricovero presso l’Ospedale Militare di Messina, rientra in servizio nella propria Compagnia. Nel Marzo del 1942 viene ferito ad un braccio durante un bombardamento alleato presso il Campo n. 41 di Montalbo e li curato alla meno peggio dal personale sanitario della compagnia. 

Il 25 Luglio 1943 viene trasferito, quale effettivo, presso il Deposito Materiali del Genio di Peschiera, agli ordini del Comando della Difesa Territoriale di Milano, proprio lo stesso giorno in cui il Gran Consiglio del Fascismo aveva deposto Mussolini dalla carica di Primo Ministro e il re aveva nominato al suo posto quale capo del Governo il Maresciallo Pietro Badoglio che autorizzò la resa incondizionata dell’Italia.

Il 3 settembre 1943 fu siglato segretamente l'armistizio di Cassibile tra il generale Castellano, incaricato da Badoglio, e il suo pari grado americano Eisenhower (che nel 1953 sarebbe diventato il 34° presidente degli Stati Uniti). L’armistizio fu reso pubblico 5 giorni dopo. La situazione militare era disastrosa. Dopo lo sbarco in Sicilia, il 10 Luglio, il Governo italiano aveva perso tempo prezioso nel tentativo di evitare una resa senza condizioni. Ma non ci riuscì. 

LA GUERRA È FINITA? Alle 19,45 dell’8 Settembre Badoglio lesse ai microfoni dell’Eiar (antesignana della Rai) il suo proclama, che includeva un passaggio decisamente ambiguo:

[...] Conseguentemente, ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza [...]

A nessuno fu chiaro che cosa si dovesse fare: non sparare più agli americani? Iniziare a colpire i tedeschi? Il proclama era (volutamente) poco esplicito. I primi a pagarne le spese furono i soldati. Ordinando alle forze armate italiane di reagire solo se attaccate – ma attaccate da chi? Dagli americani o dai tedeschi - il proclama sottintendeva la speranza - dimostratasi illusoria - che gli americani ci avrebbero tolto le castagne dal fuoco guidando loro un attacco contro i tedeschi al posto nostro nei punti nevralgici del Paese. Ma questo non avvenne. 

ROMA CITTÀ  APERTA. 

Come se non bastasse, i vertici politici del Paese abbandonarono le postazioni. All'alba del 9 settembre, con le prime notizie di un'avanzata di truppe tedesche verso Roma, il re, la regina, Badoglio e altri pezzi grossi dello Stato Maggiore vigliaccamente fuggirono da Roma senza impartire ai vari comandi (Esercito, Maria, Aereonautica) alcuna direttiva; si fermarono a Brindisi, lasciando l’esercito nella più assoluta incertezza.  Nessuna misura era stata prevista per difendere la capitale, e l’esercito, lasciato senza ordini, in molti casi si dissolse. La reazione tedesca non si fece attendere. Il comando supremo delle forze armate del Reich diede via al Piano Achse, già pronto da tempo. (I tedeschi sospettavano il possibile “tradimento” dell’Italia e avevano predisposto l’occupazione dei punti strategici). La notte stessa dell’8 settembre le forze tedesche infatti presero immediatamente possesso di aeroporti, stazioni ferroviarie e caserme, cogliendo di sorpresa le forze italiane. Roma venne dichiarata “città aperta”, ma di fatto venne occupata dalle truppe tedesche.

L'ESERCITO NEL CAOS. 

I tedeschi emanarono poi le direttive da applicare per il disarmo dei militari italiani, che dovevano essere suddivisi in tre gruppi: chi accettava di continuare a combattere dalla loro parte poteva conservare le armi, chi non lo faceva era mandato nei campi di internamento in Germania come prigioniero di guerra, mentre chi opponeva resistenza o si schierava con le forze partigiane veniva fucilato o impiegato nei campi di lavoro nell’Europa occupata. (E’ il caso della Divisione Acqui a Cefalonia che venne interamente decimata. Oltre 8.000 furono i soldati e gli ufficiali italiani fucilati dai tedeschi, perché non vollero arrendersi e consegnare le armi).

                  

       

Piacenza 1940 – 1943 Geniere Vincenzo Rizzeri

Cosa capitò l’8 Settembre 1943 al geniere Vincenzo Rizzeri e al 2° Reggimento Genio Pontieri di Piacenza?

Questo, in sintesi, il racconto che da bambino sentivo fare a mio padre quando, nelle calde sere d’estate degli anni ’60, fuori, ci si riuniva con i vicini di casa e ognuno raccontava le proprie esperienze e disavventure, soprattutto del periodo bellico.

. . .  intorno alle 19,30 dell’8 Settembre 1943, era appena iniziata la distribuzione del rancio per la cena nella mensa della caserma di Piacenza dove, quel giorno, si trovava la mia ed altre compagnie del 2° Genio. Nulla sospettavamo noi semplici soldati, ma neanche i nostri ufficiali e comandanti erano al corrente di cosa fosse stato già deciso da alcuni giorni dal Governo e dal Comando Generale di Roma. All’improvviso, intorno alle ore 20,30, vedemmo entrare nel salone della mensa il nostro Colonnello comandante preceduto da altri ufficiali; uno di questi, ad alta voce, chiese a tutti noi la massima attenzione per una importantissima comunicazione che il Colonnello doveva darci. Nonostante fossimo ormai abituati, dopo tre anni di combattimenti, alle brutte notizie, dall’evidente aria preoccupata che sul volto mostrava l’alto Ufficiale, intuimmo doversi trattare di qualcosa di molto grave. Cessò immediatamente l’assordante rumore che provocavano le centinaia di gavette di alluminio utilizzate da noi soldati per mangiare e nella grande sala regnò di colpo un silenzio quasi irreale. Il Colonnello, vero padre di famiglia, persona di grande acume ed intelligenza, ci disse che qualche minuto prima aveva casualmente appreso, ascoltando la radio, il proclama del Maresciallo Pietro Badoglio che annunciava l’avvenuto armistizio con gli anglo-americani. Aggiunse che Nessun ordine gli era giunto dal Comando Generale sul comportamento da tenere e intuendo “autonomamente” cosa a breve potesse accaderci, aggiunse  < . . . ragazzi, senza perdere un minuto di tempo, toglietevi di dosso la divisa militare, indossate gli abiti civili e datevi immediatamente alla macchia, perché ritengo che da qui a  qualche ora i tedeschi verranno ad arrestarci tutti e nella migliore delle ipotesi trasferirci nei campi di lavoro o di concentramento della Germania >.

 

La poverissima cena - il rancio - dei militari italiani

Non completammo neanche il povero pasto, corremmo invece tutti nelle nostre rispettive camerate, il tempo di cambiarci d’abito, raccogliere ed infilare nello zaino le poche cose che avevamo e nel buio della sera, dividendoci, fuggimmo verso la campagna. Il pensiero dominante in quei terribili attimi, oltre alla paura di essere catturati dai tedeschi, considerati disertori e quindi essere fucilati sul posto, era il desiderio di tornare in Sicilia, nella mia casa, dai miei genitori che non vedevo da oltre tre anni. Feci coppia con un commilitone mio conterraneo del catanese, di cui però non ricordo più il nome, ed insieme ci incamminammo in direzione Sud. Sapevamo che la Sicilia e buona parte del meridione,  erano state già liberate dagli alleati, ma avevamo anche notizia che tutta l’Italia settentrionale era ormai nelle mani dei tedeschi da cui bisognava guardarsi bene e non farsi catturare. Decidemmo pertanto, nel nostro viaggio di ritorno verso casa, di stare lontani dalle strade e camminare solamente attraverso i sentieri dei boschi e delle montagne. Per orientarci seguivamo le linee e i pali dell’alta tensione che sapevamo andare sempre a finire nei centri abitati, da cui però ci tenevamo ben lontani in quanto presidiate dalle truppe tedesche. Quando poi attraversavamo territori ove la presenza dei tedeschi era più massiccia, lo facevamo muovendoci di notte e rimanendo nascosti durante il giorno. Ci sfamavamo con quanto trovavamo nelle campagne e qualche volta anche aiutati da qualche contadino.

Dopo circa 20 – 25 giorni di marcia, sopportando fatica, fame e con sempre la paura di venire catturati, giungemmo nei pressi di Roma. Sulla via del ritorno, in Umbria, da alcuni civili avevamo saputo che la capitale era stata dichiarata - Città Aperta - pensavamo, quindi, che non ci fossero truppe tedesche o che addirittura vi fossero già giunti gli americani. Niente di più sbagliato. I tedeschi di fatto l’avevano occupata ed erano ancora li, ma noi non lo sapevamo. Io e il mio compagno decidemmo pertanto di entrare in città, chiedere aiuto a qualcuno, rifocillarci, riposarci e poi riprendere la via del ritorno. Avemmo invece un’amara sorpresa: attraversavamo una delle tante vie del centro della capitale e, purtroppo, ci imbattemmo in una pattuglia di sodati tedeschi che immediatamente ci bloccarono puntandoci contro i loro mitra. Ci urlavano qualcosa nella loro lingua, ma chi li capiva!

Terrorizzati pensavamo ormai al peggio. Ma evidentemente non era ancora giunta la nostra ora. Forse assistiti dal buon Dio, in quegli attimi concitati una macchina che transitava lentamente lungo quella via, notando la scena, si fermò accanto a noi, ne scese un signore distinto che si rivolse immediatamente al drappello di soldati in perfetta lingua tedesca. Tra di essi ne seguì una breve discussione che noi naturalmente non comprendevamo, dopodiché questi abbassarono le armi che ci avevano puntate contro e senza dirci alcun ché, andarono via. Ancora terrorizzati e tremanti dalla paura venimmo sollecitati da questo ”Angelo custode”, che ci aveva salvato da sicura morte, a salire sulla sua macchina. Con le lacrime agli occhi non ci stancavamo di ringraziare questa splendida persona che, senza neanche conoscerci, era intervenuto in nostro soccorso. Il nostro salvatore era un giornalista appartenente ad una ricca e nobile famiglia romana, evidentemente ben conosciuto dalle forze di occupazione tedesche.

Subito dopo averlo ringraziato, incuriositi, gli chiedemmo come fosse riuscito, parlando la loro lingua, a convincere quel drappello di tedeschi a lasciarci andare. Sorridendo ci rispose di aver detto loro che < . . non si tratta di soldati italiani disertori, bensì di due operai della mia tenuta di campagna che questa mattina ho mandato a Roma per degli acquisti e che quindi mi stavano aspettando in questa strada proprio per essere riaccompagnati al luogo di lavoro >.

Solamente una mente sopraffina, di grande coraggio, ingegno e nobiltà d’animo poteva in una frazione di secondo e alla vista di quella scena, decidere di intervenire in favore di due giovani sconosciuti inventandosi, all’istante, una banalissima ma efficacissima motivazione. Di fatto ci condusse nella sua tenuta di campagna alla periferia di Roma, e dopo averci rifocillati ci consigliò di rimanere li, come fossimo realmente suoi operai, anche perché i tedeschi sicuramente nei giorni successivi avrebbero controllato la veridicità di quanto dichiarato. Poi una volta calmate le acque e liberata Roma, che si sperava avvenire presto, saremmo potuti andare via. Le cose invece non andarono come speravamo. I tedeschi opposero una fortissima resistenza all’avanzata alleata e solamente 9 mesi dopo, il 4 Giugno 1944 la capitale venne liberata dalle truppe anglo-americane. Durante tutti questi mesi il nostro “ Angelo custode” – che se non ricordo male apparteneva alla nobile famiglia romana dei Turcini - continuò ad ospitarci nella sua tenuta e noi in cambio lavoravamo in quell’azienda. Qualche mese dopo (rimanemmo li quasi un anno), passato il pericolo, esprimemmo la volontà di poter riprendere il viaggio di ritorno in Sicilia e riunirci alle nostre famiglie. Ricordo che insistette affinché rimanessimo, in qualità di operai, a lavorare nella sua azienda, ma poi intuendo il nostro stato d’animo – non vedevamo i nostri cari da oltre 4 anni, ne avevamo di loro alcuna notizia - a malincuore e ringraziandoci per il lavoro svolto, ci lasciò riprendere il viaggio per la Sicilia. Qualche giorno dopo giunti a Villa San Giovanni, trovammo un barcaiolo che in cambio di un po’ di biancheria di cui disponevamo, si presto a farci attraversare lo Stretto. Giunti a Messina, sempre procedendo a piedi, riprendemmo la strada che ci portava a Randazzo dove giungemmo nella tarda mattinata del giorno dopo. Li si separarono le strade con il mio commilitone che proseguì in direzione di Bronte – Adrano. Purtroppo non ricordo il nome di questo mio compagno di traversie, ne esattamente di quale paese fosse. L’unica cosa di cui sono certo è che abitasse in un paese non troppo lontano dalla mia Randazzo”.

Passano gli anni e mio padre che nel corso della sua vita ne aveva passate di tutti i colori - le vicissitudini della Guerra, tre gravi incidenti di lavoro, per uno dei quali rimase anche per diversi giorni in coma, ed infine una complicata disfunzione cardiaca che, Il 3 di Maggio del 1985, dopo non poche sofferenze, lo condusse a rendere l’anima a Dio ad appena 67 anni di età. Ero allora dipendente del Banco di Sicilia e in quell’anno prestavo la mia attività lavorativa presso la stessa Filiale di Randazzo.

Ed ecco accadere una cosa che sa del’incredibile. Appena qualche giorno dopo il funerale, ero già rientrato al lavoro, viene a cercarmi in Banca il sig. Giuseppe Palermo, nostro cliente, dicendomi che un signore, forestiero, entrando nella sua rosticceria di Via Roma, chiedeva di un certo Sig. Rizzeri. A Randazzo con questo cognome siamo solo due famiglie, pertanto il sig. Palermo pensò potersi trattare di me. Fece aspettare questo signore nel suo locale e non avendo telefono venne personalmente a dirmelo. La rosticceria del buon sig. Palermo era poco distante dalla Filiale del Banco pertanto anch’io mi recai a piedi curioso di sapere chi mi cercasse. Ebbene si trattava di quel compagno di disavventure del mio povero padre, che dopo ben 40 anni era venuto a Randazzo per rivedere l’amico e riabbracciarlo.

Lui si ricordava benissimo il nome e il paese di mio padre con cui, in fuga da Piacenza, passando per Roma e dopo un anno trascorso insieme, tra tante peripezie, si erano poi divisi proprio a Randazzo. Coincideva anche quanto da sempre ripeteva mio padre:  

“ . . . .  non ricordo più il nome del mio compagno che però doveva essere di un paese della nostra zona, non lontano da Randazzo “.

Quel signore infatti abitava ed era un cittadino di Biancavilla.  

Lo ringraziai per non essersi mai dimenticato del suo amico Vincenzo, che pur non ricordandone il nome lo aveva sempre tenuto nel suo cuore. Aggiunsi che purtroppo era deceduto da appena qualche giorno. Lessi sul suo volto la sorpresa e il dispiacere e dopo esserci salutati andò via.

La sorte avversa non aveva consentito a questi due - Veri amici - neanche potersi reincontrare e riabbracciarsi. Non so se questo signore possa essere ancora in vita, sarebbe ultracentenario, ma sono certo però che nel mondo dei più avranno entrambi modo di rivedersi e ricordare i brutti momenti passati insieme nel bel mezzo del più tremendo conflitto mondiale che la storia ricordi.

Tengo a precisare che nel corso del conflitto il Governo che nel 1945 subentrò a quello del Maresciallo Badoglio, conscio dei gravissimi disastri con decine di migliaia di militari italiani fucilati e deportati, rimasti senza direttive da parte del re e del Governo Badoglio, che vigliaccamente pensarono solo a mettersi in salvo rifugiandosi a Brindisi, emanò la Circolare n. 318 che riconosceva la “continuità del servizio militare effettivo” a tutti i soldati e agli ufficiali che a motivo dell’ “Ambiguo messaggio dell’8 settembre 1943 , per sfuggire alle rappresaglie delle milizie tedesche, furono costretti a - sbandarsi -, dandosi alla macchia”.

Questo il contenuto finale del “Foglio Matricolaredi Rizzeri Vincenzo al paragrafo 44 e seguenti:

 

Sbandatosi in seguito agli eventi sopravvenuti           li,  8 Settembre 1943        -  44

   all’armistizio e  rifugiatosi a Roma.                                      

   Considerato in servizio dal 9 Settembre 1943 al         li,  9 Settembre 1943        -  45

   4 Giugno 1944  - Circ. 318  C. M. 1945. -

  Tale posto in licenza illimitata                                       li,   4 Giugno 1944             -  46

  Collocato in congedo in ottemperanza della                  

  Circolare M.D.E. n. 22760                                              li,  19 Settembre 1945      -  50

 

                                  

                                13 Agosto 1943 - Gli Americani occupano Randazzo

Il Ministero del Tesoro, Direzione Generale delle Pensioni di Guerra, a seguito di domanda di concessione del previsto assegno mensile per i reduci di guerra che avevano riportato ferite in combattimento, o per malattie permanenti acquisite durante il servizio prestato (21 Marzo 1939 - 19 settembre 1945) con decorrenza 1° Luglio 1961, e solamente fino al 30 Giugno 1965, assegnava al Geniere Vincenzo Rizzeri, per infermità contratta in guerra - esiti di pleurite basale dx con sinfisi costo frenica - la Cat. 8^ Tab. D (praticamente l’ultima categoria) e solamente in quanto vennero trovati i documenti di ricovero - 10 agosto 1940 - presso l’Ospedale Militale di Piacenza e poi in quello di Messina, un Assegno (Pensione . . . Privilegiata ..!!?) - udite, udite - di Lire 64.800 lorde annue, pari a Lire 5.190 mensili netti, oggi equivalenti ad € 2,68 e solamente per 4 anni. Non gli venne riconosciuta la ferita di scheggia al braccio sinistro, che rimase parzialmente difettoso, ricevuta durante un bombardamento alleato nel Marzo del 1942 mentre era in servizio al campo n. 41 per prigionieri di guerra di grado superiore dell’esercito inglese di Montalbo, Comune di Ziano Piacentino, in quanto non si trovarono i relativi documenti. (Raccontava mio padre che la scheggia fuoruscì lesionando un tendine ma senza ledere l’osso e venne pertanto medicato alla meno peggio sul posto dai sanitari della Compagnia).

Questo il vergognoso prezzo che riconobbe lo Stato Italiano ad un suo servitore quale corrispettivo di 78 mesi di lavoro, battaglie, stenti, privazioni, malattie e costantemente in compagnia di “quella signora vestita con una tunica nera munita di cappuccio, che brandisce una “grande falce.

  

         

Il Certificato di “pensione” con scadenza 30 giugno 1965

                                        

Convoglio americano in Via Marotta 

 

                Randazzo - Corso Umberto I

Un Quartiere Scomparso - Santa Maria dell'Itria

RANDAZZO E LA SUA STORIA

Un quartiere scomparso - Santa Maria dell’Itria

 

Se tanto si è scritto e detto dei famosi tre quartieri che costituivano il nucleo centrale dell’antica città di Randazzo (S. Maria, S. Nicola e S. Martino) attorno a cui gravitava la vita politica, economica, ma soprattutto religiosa della comunità, quasi nulla si sa, se non per qualche rarissima citazione degli storici locali, di un altro importante quartiere ormai scomparso: quello di “Santa Maria dell’Itria”. Ma, prima di parlare di questo scomparso quartiere, vorrei soffermarmi perché ad esso sia stato dato tale nome.

Il titolo di MADONNA DELL’ITRIA, come scrive il Prof. Santi Correnti a pag. 32 della sua opera: “ Saggi Siciliani di Storia e di Letteratura “ è un’abbreviazione dell’antichissimo titolo Bizantino di “ODEGITRIA” o “ ODIGITRIA “, che gli imperatori di Costantinopoli diedero alla Madonna come “guida nel cammino della vita”, che potrebbe tradursi come: “Madonna del Buon Cammino”. Questo culto religioso della Madonna, prosegue il Prof. Correnti, è tipicamente Bizantino e questa speciale devozione alla Madonna Odegitria – o più brevemente dell’Itria – si diffuse in tutti i territori sottoposti ai Bizantini. La Sicilia dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente (476 d. C.) fu soggetta a successive invasioni barbariche (Vandali di Genserico, Visigoti di Odoacre, Erulo-Ostrogoti di Teodorico); divenne infine provincia del Sacro Romano Impero d’Oriente tra il 535 e il 550 d.C.

In Calabria a San Basile (Cosenza) esiste ancora un santuario mariano dedicato alla Madonna Odegitria, in Puglia, nella cripta della cattedrale di Bari, si venera ancora un’immagine della Madonna Odegitria che si vuole sia quella originaria venerata nella chiesa degli Odeghi di Costantinopoli, trasportata in Italia nel sec. VIII°, durante la persecuzione degli iconoclasti, da due monaci Basiliani.

In Sicilia il culto religioso della Madonna dell’Itria divenne assai diffuso, tanto che a Patti la chiesa dedicata alla Madonna Odegitria viene ancora chiamata “S. Maria dei Greci ”. Altre chiese esitono in parecchi centri religiosi fino a Roma dove, costituitasi nel settembre del 1593 la Confraternita Siciliana di Santa Maria dell’Itria, ebbe dal Papa Clemente VIII°, in data 5 febbraio 1594, l’autorizzazione a costruire una chiesa e un ospedale su una vasta area edificabile donata alla Confraternita dal siciliano Matteo Catalani divenendo, una volta edificata, la “ Chiesa Nazionale dei Siciliani in Roma “.

Anche in territorio di Randazzo massiccia fu la presenza dell’elemento bizantino. In contrada “ Sant’Anastasia “ sorgeva, infatti, un centro bizantino che ci viene confermato non solo dai ritrovamenti archeologici, ma anche da tre vistose costruzioni che, con parola araba, le popolazioni locali chiamano “ CUBE “. Esse rappresentano la testimonianza di come dovette  colà fiorireun centro bizantino fino alle incursioni arabe (869 d.C.), tempo in cui la popolazione  cercò asilo più sicuro  contro le frequenti incursioni sulle balze dell’Alcantara su cui sorge l’attuale città.

Il sito in cui si trova Randazzo si sarebbe prestato perfettamente  ai requisiti di sicurezza. Esso, infatti, era difeso da due fiumi: dall’attuale Alcantara e dal cosiddetto “ Fiume Piccolo “ che, fino al 1536, circondava Randazzodalla parte di mezzogiorno, passando per il “Piano di Tutti-Santi “.

La città era inoltre difesa a ponente non solo dall’imponente ciglione lavico su cui sorge l’attuale Castello Svevo ma anche, a mezzogiorno, da una vasta palude che fu distrutta, assieme al Fiume Piccolo, dalla colata lavica che prese il nome “Annunziata “ dal nome della località che devastò.

Su queste posizioni, naturalmente fortificate, avrebbe trovato pace e sicurezza la popolzione proveniente dal medio corso dell’Alcantara. Randazzo fu successivamente cinta di mura, che migliorarono ed accrebbero notevolmente le sue possibilità di difesa. Il forte incremento demografico degli anni successivi obbligarono parte degli abitanti ad edificare nuovi quartieri al di fuori delle mura di cinta. Sorsero così consistenti nuclei di case nell’attuale quartiere di San Vito, di Tutti Santi e in quello del Carmine.

Ma, senza ombra di dubbio, il quartiere più importante  che venne edificato al di fuori della cinta  muraria fu quello di “ SANTA MARIA DELL’ITRIA “. Esso sorgeva a nord della città, nel vallone all’interno del quale scorrono e si incontrano il fiume Alcantara e il torrente Annunziata. Si snodava lungo le balze del fiume dall’attuale via Pozzo, all’altezza del colle del Monastero dei Cappuccini, fino al Ponte Vecchio sull’Alcantara, nei pressi dell’attuale “Porta Pugliese “, per poi estendersi ed allargarsi nella “ Timpa di San Giovanni “.

La sua importanza è dovuta al fatto che esso divenne il quartiere industriale e commerciale della città, in questo favorito anche dal fatto che veniva attraversato dalla cosiddetta “ Via dei Monti “, unica strada usata dalle carovane dei commercianti che, per sfuggire agli assalti dei pirati barbareschi longo le coste, la usavano per spostarsi da Messina  e dalla costa Jonica verso l’interno della Sicilia fino a Palermo.

Il suo nome era dovuto oltre che alla devozione per la Madonna “Odegitria “ il cui culto religioso era allora il più diffuso in Sicilia e accomunava veramente tutti i siciliani, ma anche e soprattutto perché in detto quartiere venne edificata l’omonima Chiesa che fungeva da Parrocchia e amministrava i Sacramenti agli abitanti il quartiere che veniva più comunemente chiamato dei “ Conciariotti “, segno questo che denota in loco la presenza massiccia dell’industria della concia, in questo favorita dall’abbondanza di acqua.

Nello stesso rione si trovava anche la “Chiesa di San Giovanni Battista “, nonché la più importante fonte di approvvigionamento idrico della città: la “ Fontana Grande “ e quella del “ Gallo “, così chiamata perché sopra una pietra della stessa un’ignoto artista vi aveva scolpito la figura di un gallo.

L’espandersi del quartiere determinò successivamente la costruzione di altri due edifici Sacri: La “Chiesa della Misericordia” e il “Convento di S. Onofrio” dei padri cappuccini. Quest’ultimo costruito così male da franare nel torrente Annunziata pochi decenni dopo la sua edificazione.

A questo punto viene spontaneo chiedersi come mai questo grosso ed importante aglomerato urbano possa essersi del tutto volatilizzato lasciando pochissime tracce della sua esistenza. La risposta ci viene fornita dal compianto storico locale, il Salesiano Prof. Don S. Calogero Virzì che, in una delle sue ultime opere: “ La Chiesa di S. Maria “, elencando una serie di avvenimenti  catastrofici per la città, così si esprime a pag.  69 di detto volume: “ La tempesta più disastrosa che subì la città fu quella del 1682. Fu un alluvione che distrusse i due ponti sull’Alcantara, trascinò via l’intero quartiere di S. Maria dell’Itria, distrusse la Chiesa di San Giovanni, il vicino mulino e interrò la Fontana Grande lasciando la città priva di acqua “.

Cause, quindi, d’ordine naturale quelle che diedero vita alla scomparsa, nell’anno 1682, di questo grosso ed importante quartiere di cui nessuno si è fin qui occupato, se non per cenni. Quasi nulla rimane oggi a testimonianza di tale aglomerato urbano; negli ultimi decenni l’area su cui sorgeva è stato completamente stravolto con l’edificazione di laboratori artiglianali e case di abitazione.

Sono scomparsi alcuni tratti, ancora visibili fino a qualche anno fa, dei canali che portavano l’acqua al mulino per il funzionamento delle macine, i ruderi del mulino stesso, ciò che rimane della “Fontana Grande “ ormai seminterrata, nonché i diroccati muti perimetrali  della Chiesa di “ Santa Maria della Misericordia “ presso il torrente Annunziata, ed alcuni esili tracce della Chiesa che ha dato il nome a questo quartiere.

Ridotta ad un ammasso di rovine dai bombardamenti del Luglio-Agosto 1943, era proprietà del Sig. Paolo Caldarera. Fino al 1990 erano ancora visibili alcuni pezzi sparsi qua e la dei muri perimetrali, i resti di un deturpato affresco incorniciato all’interno di un archetto a tutto sesto in pietra arenaria, nonché la fossa destinata a sepoltura che sorgeva al centro della Chiesa; il tutto già allora manomesso dalla mano e dall’incuria dell’uomo.

Randazzo 11 Settembre 2020

20 Giugno 1719 - La Battaglia di Francavilla

Salvatore Rizzeri

20 Giugno 1719 – La Battaglia di Francavilla di Sic.

Lo schieramento dei due eserciti sul campo di Battaglia   

Il percorso storico che si unisce a quello naturalistico ci dà la possibilità attraverso delle bacheche di conoscere alcuni ragguagli della più grande battaglia che la storia della Sicilia degli ultimi secoli ricordi, quella del 20 giugno 1719.

Il trattato di Utrecht del 1713 aveva ridisegnato la geopolitica dell’Europa di inizio settecento, assegnando la Sardegna e il regno di Napoli alla Casa d’Austria, mentre il Regno di Sicilia veniva assegnato alla Casa dei Savoja. Tuttavia la Spagna, per nulla rassegnata a perdere i suoi possedimenti in terra italiana, con una manovra a sorpresa la mattina dell’11 agosto del 1717 occupava la Sardegna e l’anno successivo con una flotta di oltre quattrocento navi da guerra e da trasporto, sbarcava a Palermo un suo esercito forte di 29.000 uomini al comando del generale Marchese di Lede per schiacciare i piemontesi.

Il Duca Vittorio Amedeo di Savoja, visto il precipitare degli eventi, si rivolse ai firmatari del trattato di Utrecht, che nel patto di Londra dell’8 Novembre 1718 stabilirono di assegnare all’Austria anche la Sicilia in modo da poterla riunire con il Regno di Napoli, mentre alla casa di Savoja veniva assegnata la Sardegna e il titolo di Re.

Il 9 gennaio 1719 l’Austria dichiarava guerra alla Spagna e fra gennaio ed aprile l’esercito spagnolo più volte si scontrò con l’esercito austriaco che fino a quel momento era al comando del generale barone di Zum Jungen.

Nella notte tra il 26 e il 27 maggio del 1719 gli austriaci, trasportati da una flotta di 200 navi della marina inglese, sbarcarono sulla spiaggia di Patti un esercito di 24.000 veterani, provenienti dai balcani. Al comando vi era Claudio Florimondo Conte di Mercy. L’armata divisa in due colonne, si spostò a Oliveri dove pose il campo.

Gli spagnoli, colti di sorpresa mentre assediavano Milazzo, furono costretti ad abbandonare il campo, lasciando anche i feriti e incamminandosi sulla direttrice Barcellona, Castroreale, raggiunsero Francavilla.

La scelta del posto non fu casuale, gli spagnoli si spostarono in posizione più favorevole intorno al villaggio di Francavilla, dove erano protetti da un torrente, il San Paolo, che anche se in secca ostacolava l'avvicinamento nemico. Vi era inoltre un Convento dei Padri Cappuccini protetto da mura e posto sopra una collina, designato quale posto avanzato e in cui tramite le mura, il Convento e i parapetti da loro preparati, gli spagnoli disposero cinque ordini di fuoco e vi erano di presidio 4 battaglioni della Guardia spagnola.

ll Mercy saputo ciò, si ritirò a Merì per preparare quanto necessario alla battaglia che si prospettava. Qui fece concentrare tutte le proprie truppe e in più il reggimento di dragoni Roma giunto il 9 giugno dalla Calabria. Il 15 giugno, dopo l'arrivo di altri rinforzi, fu dato l'ordine di avanzare.

L'armata si mosse senza artiglieria che si ritenne di non poter trasportare a causa delle strade impervie dei monti Peloritani e fu quindi spedita via mare (sicuramente le strade vennero danneggiate dagli spagnoli e dai locali, ostili agli austriaci).

La mattina del 17 l'esercito si divise in tre colonne e, dopo una marcia di 15 chilometri, pose il campo a ovest di Castroreale, tra Rodì e Milici. Il 18 l'avanguardia fu attaccata da gruppi di abitanti locali armati di fucile; per questo motivo e sapendo che la strada era presidiata da bande armate e che erano stati posti degli ostacoli lungo di essa, il Mercy decise di svoltare ad oriente.

La marcia di avvicinamento verso Francavilla tra varie problematiche e assalti, durò più di due giorni, proseguì verso le alture di Portella delle Tre Fontane, intraprendendo quindi un cammino impervio e molto difficoltoso per la cavalleria e per le bestie da soma; comunque le truppe riuscirono a percorrerla. La punta dell'avanguardia riuscì a raggiungere il colle delle Tre Fontane e a scacciarne i soldati spagnoli che lo presidiavano. Tra il mattino successivo e mezzogiorno arrivò il resto dell'armata austriaca che qui bivaccò; da questo colle si poteva vedere Francavilla e da qui i generali studiarono lo schieramento nemico.

La Battaglia

Vista la buona posizione fortificata degli spagnoli i generali imperiali sconsigliarono l'attacco essendo l'armata austriaca sprovvista di artiglieria, ma il Mercy fu di parere opposto e decise per l'assalto dividendo l'esercito in tre colonne.  

La prima colonna attaccò il villaggio tre volte, ma venne respinta ogni volta. La seconda colonna riuscì a conquistare le trincee che si trovavano ai piedi della collina del Convento, ma fu fermata dalla seconda linea di difesa spagnola. La terza colonna imperiale attaccò invece il fianco sinistro, cacciando le forze spagnole dalla collina di San Giovanni, ma gli austriaci si vennero così a trovare sotto un pesante fuoco spagnolo e dovettero ripararsi in un crepaccio soffrendo di conseguenza molte vittime tra cui il generale Holstein che aveva guidato l'attacco.

L'artiglieria spagnola, al comando del Marchese di Villadarias, giocò un ruolo cruciale durante la battaglia, causando molte vittime e grande confusione nell'armata austriaca.

La battaglia infuriò fino a sera a fasi alterne, con ripetuti tentativi da parte austriaca di espugnare le trincee dell’armata spagnola poste alla base del colle dei Cappuccini dalla cui sommità l’artiglieria spagnola martellava ininterrottamente le truppe imperiali.

Alle 19 e trenta il generale Conte di Mercy si trovava nella prima linea di battaglia e comandò personalmente l’ennesimo assalto, ma venne colpito dalla pallottola di un tiratore scelto spagnolo e ferito gravemente al fianco.

A questo punto le operazioni del comando austriaco passarono al generale di artiglieria barone Zum Jungen e al Conte Olivero Wallis. Intorno alle ore venti un contrattacco della cavalleria spagnola tolse tutte le speranze di una vittoria austriaca. Infatti alle 20 e trenta i due generali comandanti le forze austriache facevano interrompere gli assalti ai triceramenti spagnoli, ritirandosi.

“ . . . . Alla fine della giornata, un massacro. Sul campo, sulle sponde della fiumara e del fiume S. Paolo, che si tingono di rosso, giacciono migliaia di uomini, che non sono solo austriaci e spagnoli, ma anche tedeschi, catalani, irlandesi, lorenesi, milanesi, napoletani, portoghesi e, naturalmente, anche siciliani. Insomma “una battaglia europea”. La scarsa intraprendenza del comandante spagnolo lasciò poi la strada libera agli Austriaci lungo la Valle dell’Alcantara, verso la marina di Giardini-Naxos, di fronte alla quale stazionava la flotta inglese. Da lì, prima alla conquista di Taormina e poi a quella di Messina, l’esercito austriaco andò a posizionarsi nella Sicilia occidentale, giungendo alla sospensione delle ostilità con la Convenzione di Palermo.[1]

Quella di Francavilla viene ricordata come una fra le più cruente battaglie mai combattute. Lo scontro, che incominciò all’imbrunire del 19 giugno 1719 ed infuriò per tutto il giorno successivo, come afferma Salvatore Maugeri “ . . . seppur non portava con sé una vittoria schiacciante di una delle due parti, si concludeva con un massacro di uomini da ambo le parti che complessivamente assommano a 8.018 morti e 12.030 feriti, di cui molti gravi che nei giorni successivi si assommarono ai morti.[2]

La guerra ebbe fine con il trattato dell’Haya, firmato il 17 Febbraio 1720 per la Spagna dal suo Ministro plenipotenziario Marchese Beretti Landi. Gli Spagnoli dovettero abbandonare la Sicilia, che restò austriaca. Andrà ai Borbone nel 1734, ma sarà un’altra storia.

*  *   *   *   *

. . . . .  Abbiamo visto lo schieramento assunto dalle truppe spagnole sul campo di battaglia di Francavilla, ma non ci si è mai chiesto dove si trovava il loro Quartier Generale. Infatti una delle cose poco conosciute di questa tremenda battaglia riguarda i preparativi che i comandanti spagnoli avevano predisposto nei giorni precedenti lo scontro.

A circa 20 chilometri dal campo di battaglia, risalendo la Valle dell’Alcantara, sorge la vecchia città regia fortificata e centro di comando militare di Randazzo, “La Fedelissima”, come la definì  Federico III d’Aragona per l’aiuto che questa aveva sempre dato al suo re nelle tante guerre che aveva dovuto sostenere contro gli angioini, tanto da meritarsi nell’anno 1303 l’emanazione del Decreto Regio da parte di questo illuminato monarca che la insigniva del titolo di “ Città Demaniale “, dipendente cioè direttamente dal Re, con tutti i privilegi e le prerogative che ne derivavano. Divenne infatti anche sede di Corte Capitanale e di Capitano Giustiziere su un vasto territorio comprendente ben 12 comuni dell’area del Val Demone e del Saracena-Simeto.

Città quindi sempre fedele ed alleata degli spagnoli, ed è qui che i comandanti dell’armata spagnola posero il loro Quartier Generale predisponendo il necessario per l’imminente scontro con le truppe austriache. Diversi reggimenti con i loro comandanti nei giorni precedenti lo scontro erano di stanza nella città etnea e molti soldati dovettero essere ospitati perfino all’interno delle chiese, quella di San Nicola – la più grande della città e della Diocesi – ne ospitò moltissimi. Alla periferia est di Randazzo, in quell’area che fin dal 1282 i randazzesi continuano a chiamare “ Campo Re “,[3] venne creato un centro che potesse raccogliere e curare i feriti provenienti dalla battaglia. Nei pressi di quell’area sorgeva uno dei due cimiteri della città e un Convento dedicato a Sant’Antonio Abate, gestito dai Padri Antoniani Viennesi (III° Ordine). Era questo un’ordine ospedaliero e monastico-militare. I monaci venivano chiamati anche ” Cavalieri del Tau “, a motivo della loro particolare divisa.

Fu in questo “Ospedale da Campo” che vennero portati a migliaia, il 20 di giugno e nei giorni successivi, i feriti spagnoli della Battaglia di Francavilla. Gli storici locali ci attestano che oltre 800 vi morirono e vennero seppelliti in fosse comuni all’interno dei due cimiteri quello di Sant’Antonio Abate e in quello di San Lorenzo. A futura memoria in quei luoghi venne innalzata una grande Croce ancora esistente fino agli inizi del 1900 e che i randazzesi chiamavano “ La Croce degli spagnoli".  

Chi coordinò e organizzò a Randazzo la Piazza d’Arme dell’esercito spagnolo fu il nobile cittadino randazzese Giorgio Licari, già Capitano della Val Demone e della Val di Mazara con il Privilegio del Mero e del Misto Impero. Nell’anno 1718 era stato anche insignito del grado di Capitano d’Arme di Guerra dal Re Filippo V di Spagna. il 20 Giugno 1719 al comando di un Reggimento di soldati randazzesi anche lui prese parte alla Battaglia di Francavilla. Per l’ardire e il coraggio dimostrato in quel terribile scontro venne in seguito insignito del grado di Colonnello di Cavalleria [4].

 

[1] Giuseppe Restifo:  Mostra tricentenario della Battaglia di Francavilla. 1719 – 2019. UNA GUERRA UNA BATTAGLIA, 21 – 22 – 23 Giugno. Biblioteca  Comunale Palazzo Cagnone, Francavilla di Sicilia.

[2] Salvatore MaugeriFrancavilla di Sicilia tra Storia, Cultura e Politica. Il Convivio Editore 2018. Op. Cit. pag. 196.

[3] Salvatore Rizzeri: Randazzo e la sua storia. Origine ed evoluzione nei secoli. Opera inedita. Pag. 121. Fu il luogo dove il 9 settembre 1282 Re Pietro III d’Aragona si accampò col suo esercito dopo lo sbarco a Trapani avvenuto il 30 di Agosto di quell’anno.

Salvatore Rizzeri: La Peste di Randazzo del 1575 – 1580. dal sito www.randazzomedievale.it

[4] Salvatore Rizzeri: Randazzo e la sua storia. Origine ed evoluzione nei secoli. Opera inedita. Citaz.  Pagg. 226 – 227.

   

 

Randazzo 25 Luglio 1920 – UNA STRAGE DIMENTICATA

Salvatore Rizzeri

Randazzo 25 Luglio 1920 – UNA STRAGE DIMENTICATA

Dei primi decenni del novecento fu uno degli avvenimenti più tragici della storia della citta, completamente sconosciuto al pubblico, del tutto dimenticato e mai trattato da alcun libro di storia. Ad onor del vero, bisogna dare atto al bravissimo giornalista televisivo Alessandro Cecchi Paone che per primo qualche anno fa ne ha ampiamente parlato in un interessante servizio televisivo curato da Sky – Canale Marco Polo, dal titolo: Sicilia - l’Isola del tempo.                          

Un avvenimento di sangue si verificò a Randazzo negli anni venti, nel periodo che precedette l’avvento al potere del fascismo. La Sicilia viveva allora un’intensa stagione di lotte per la terra condotte dalle organizzazioni contadine. Queste chiedevano l’espropriazione dei latifondi, la concessione delle terre alle associazioni agricole, l’istituzione di una Banca agraria, il miglioramento della viabilità, la fissazione di un salario minimo e la giornata lavorativa di 8 ore.

Si sperimentarono, proprio in questo periodo, le prime forme di collegamento tra lotte contadine e lotte operaie ad opera di dirigenti sindacali lungimiranti come Nicolò Alongi e Giovanni Orcel, entrambi assassinati. Il bilancio di queste lotte in quegli anni fu sanguinoso e una delle punte più alte della violenza repressiva fu proprio il “Massacro di Randazzo di domenica 25 Luglio 1920”, in cui perirono 11 dimostranti inermi e rimasero ferite altre decine di persone”.[1]

Randazzo - Popolani in Via Garibaldi

Da settimane a Randazzo operai e contadini rumoreggiavano per la gravissima situazione economica che aveva ridotto la gente nella più triste miseria. Mancavano i generi di prima necessità, ma soprattutto scarseggiava il pane, con la legge che da tempo imponeva l’ammasso della produzione del grano, mancava alle famiglie non solo quello necessario per sopravvivere ma addirittura anche il grano per la semina. Siamo alla vigilia dell’avvento al potere del fascismo, ed oltre alla ormai incombente crisi finanziaria ed economica mondiale che dagli Stati Uniti si sarebbe propagata all’Europa, ad aggravare la già precaria situazione di Randazzo non erano stati certamente estranei anche alcuni avvenimenti particolari e tragici che in quegli anni la interessarono direttamente e che contribuirono a creare questo stato di cose. Le epidemie di colera del 1897 e del 1911 avevano mietuto moltissime vittime e lo scoppio della 1^ Guerra Mondiale per anni aveva costretto al fronte migliaia di capi famiglia e di giovani, da dove molti non faranno più ritorno. Alle già povere famiglie venne così a mancare anche l’apporto di quelle braccia che per il duro lavoro nei campi erano indispensabili e contribuivano in modo determinante a procurare quel minimo sostentamento. Quella tragica estate del 1920 era stata anche caratterizzata da problemi di natura amministrativa: il Sindaco e la Giunta si erano dimessi e il Prefetto di Catania, fino allo svolgimento delle prossime elezioni comunali, aveva nominato un Commissario ad acta che reggeva alla meno peggio le sorti della città. 

In questo instabile ed arroventato contesto la mattina di Domenica 25 Luglio 1920, una gran moltitudine di gente, soprattutto donne, rumoreggiando si recò al Palazzo di città per chiedere alle Autorità una rivisitazione ed un allentamento delle norme restrittive sulle quantità di grano da distribuire alla popolazione. Una delegazione venne ricevuta dal Commissario e si era anche raggiunto un accordo quando l’imprudente e pesante battuta di un dipendente comunale, rivolta all’indirizzo dei manifestanti, fa scoppiare l’ira soprattutto delle donne che mettono a soqquadro alcune stanze del municipio. E qui accade l’irreparabile: il comandante del drappello dei Carabinieri preposti alla sicurezza, sconsideratamente ed in modo irresponsabile, anziché calmare gli animi, ordina ai militari di aprire il fuoco sulla folla degli inermi manifestanti che, raccontano le cronache del tempo, erano privi di qualsiasi arma offensiva. Qualcuno vociferò che alla sparatoria partecipò anche qualche vigile urbano, fatto sta che all’interno del chiostro e nei pressi del cancello di accesso al municipio rimasero a terra, colpiti a morte, sette manifestanti oltre ad alcune decine di feriti, che seminarono lutto e disperazione in tante famiglie. Il bilancio delle vittime era però destinato ad aumentare, infatti il giorno dopo per le gravi ferite riportate decedevano altri due dimostranti.

Se oggi siamo in grado di conoscere i nomi delle sette vittime innocenti che si immolarono per una giusta causa, lo si deve alla caparbia e lunga ricerca d’archivio dell’amico e studioso NINO FINOCCHIARO a cui va tutta la nostra gratitudine:

  • CALCAGNO VINCENZO di anni 56 – Coniugato        Deceduto il 25.07.1920
  • SORBELLO GIUSEPPE dI anni 19 - Celibe               Deceduto il 25.07.1920
  • LA PIANA BENEDETTO di anni 54 - Coniugato         Deceduto il 25.07.1920
  • MANGIONE GAETANO di anni 65 – Coniugato         Deceduto il 25.07.1920
  • GIGLIO GIUSEPPE di anni 37 - Coniugato               Deceduto il 25.07.1920
  • CELONA LUIGI DI ANNI 19 – Celibe                         Deceduto il 25.07.1920
  • MAGRO FRANCESCO di anni 61 – Celibe                Deceduto il 25.07.1920

Purtroppo non si sono riuscite a conoscere le generalità delle due persone decedute nei giorni successivi per le gravi ferite riportate.

Il gravissimo fatto di sangue di Randazzo, una vera e propria strage, ebbe purtroppo un’ulteriore tragica coda, infatti il nascente Partito Socialista di Catania, avutane notizia, il giorno dopo organizzò una manifestazione di protesta che si concluse con un comizio durante il quale scoppiarono però dei tafferugli con le forze dell’ordine che, anche in questo caso, aprirono il fuoco sui manifestanti.

Randazzo - Il chiostro del municipio luogo della strage

" Nel corso delle manifestazioni di piazza, particolarmente tumultuose, si verificarono vari scontri tra la truppa (...) i dimostranti e alcuni provocatori nazionalfascisti che avevano disturbato il comizio socialista di Giuseppe Sapienza e Maria Giudice al teatro Sangiorgi. Le <<forze dell'ordine>> spararono sulla folla con le mitragliatrici: sei dimostranti, tra una quarantina di feriti, rimasero uccisi ".[2]

Alla base di questi sanguinosi interventi vi era la volontà di evitare che il movimento contadino travalicasse gli argini del riformismo, che assumesse, cioè, le caratteristiche di un vero e proprio movimento rivoluzionario. Benché sia Nitti sia Giolitti fossero contrari, in linea di principio, al ricorso alla repressione violenta e generalizzata, nei fatti le loro generiche direttive ai Prefetti finivano per concedere a questi ultimi un forte potere discrezionale, per favorire - così come nell'età giolittiana - le forze in campo più potenti.[3]

Questi ed altri avvenimenti, al di là della loro tragicità, ribadiscono una cosa molto importante, affermano in sostanza che né il Risorgimento, né le lotte autonomiste e indipendentiste accettarono di fare proprie le legittime rivendicazioni sociali e sindacali dei contadini e della classe operaia. Abbiamo visto infatti come sia nel 1860, con i fatti di Bronte e Randazzo, sia nel 1920, con la strage di Randazzo, sia alla fine dell’ultimo conflitto mondiale con il secondo eccidio di “Murazzu Ruttu” del 17 Giugno 1945, di cui diremo specificatamente più avanti. Tutto accadde in nome di principi legati ai cambiamenti istituzionali. Principi strettamente connessi alla volontà di cambiare la forma giuridica dello Stato, di cambiare i confini stessi dello Stato, ma mai si accettò, e come abbiamo visto fu pagato col sangue, questo tentativo di lavorare in maniera seria, esplicita e radicale per la giustizia economica, la giustizia sociale e la giustizia nel campo del lavoro.

Di questo grave fatto di sangue però poco si seppe, del resto la stessa cosa era già avvenuta, come abbiamo visto, in occasione della venuta di Nino Bixio a Randazzo per reprimere i moti rivoluzionari scoppiati nella città nell’Agosto del 1860. La classe nobiliare dominante, che allora deteneva anche il potere politico, aveva tutto l’interesse ad insabbiare e nascondere questi gravissimi fatti che denotavano il malcontento della popolazione soprattutto nei loro confronti. Con questo luttuoso eccidio cittadino ebbero fine i movimenti di rivolta a Randazzo.

E’ passato più di un secolo da quella tragica ed infausta giornata, eppure di questa tremenda strage si sa ancora ben poco, quasi nulla direi e, se si esclude il servizio giornalistico-televisivo di Sky magnificamente curato da Alessandro Cecchi Paone e quello del 15 luglio 2011, da me curato e trasmesso da TGR Randazzo, nessuno ne ha mai fatto cenno. Neanche le autorità cittadine, già nel passato, come pure dal dopoguerra e fino agli anni recenti, hanno mai pensato di onorare il ricordo di quelle povere vittime innocenti la cui sola colpa era stata quella di chiedere allo Stato l’affrancamento dalla miseria e dalla fame e un trattamento più solidale e umano dal punto di vista economico e sociale. La risposta che ne ebbero fu scritta con il piombo della polizia e l’inchiostro rosso del loro sangue.  

 

[1]  A. Cecchi Paone: Dalla trasmissione televisiva “Sicilia – L’Isola del tempo”. Citaz.

[2]  G.C. Marino, 1976 p. 107n.

[3]  Gabriella Scolaro: dal sito www.terrelibere.it/storia - 1997.

 
 
 

18 Ottobre 1535 - L'Imperatore Carlo V a Randazzo

Salvatore Rizzeri

18 OTTOBRE 1535 – LA VENUTA DI CARLO V A RANDAZZO

Carlo V d'Asburgo (Gand, 24 febbraio 1500Cuacos de Yuste, 21 settembre 1558) è stato Imperatore del Sacro Romano Impero Germanico dal 1519. A capo della Casa d'Asburgo durante la prima metà del 500, fu sovrano di un " impero sul quale non tramontava mai il sole " che comprendeva in Europa i Paesi Bassi, la Spagna e il sud Italia aragonese, i territori austriaci, la Germania e il nord Italia Imperiale, nonché le colonie castigliane e tedesche nelle Americhe.

In linea con il suo disegno universalistico, Carlo V viaggiò continuamente nel corso della sua vita senza stanziarsi in un'unica capitale. Incontrò sul suo cammino tre grandi ostacoli, i quali minacciavano l'autorità imperiale in Germania e Italia: il Regno di Francia, ostile all'Austria e circondato dai possedimenti carolini di Borgogna, Spagna, e Impero; la nascente Riforma Protestante, appoggiata dai principi luterani e l'espansione dell'Impero Ottomano ai confini orientali e mediterranei dei domini asburgici.

Tra il 1529 e il 1535 Carlo V affrontò la minaccia islamica, dapprima difendendo Vienna dall'assedio turco e poi sconfiggendo gli Ottomani in Nord Africa e conquistando Tunisi.

Subito dopo la vittoria in terra d’Africa, si imbarca per la Sicilia, giunge a Trapani il 22 di Agosto 1535 e dopo essersi riposato per un mese nella capitale isolana, Palermo, dal 13 settembre al 13 di ottobre, da qui inizia il percorso che in diverse tappe lo porterà a Messina.

Lunedì 18 Ottobre 1535 giunge a Randazzo, “la Fedelissima”, entrò per la Porta occidentale o “Porta Palermo” chiamata anche “della dogana” e, a detta del De Feronda y Aguilera, vi rimane per due giorni.[1] L’evento è riportato in una pagina del “Libro Rosso “ della Chiesa di San Martino.

Scorgendo la città, si dice che abbia chiesto: “ Come si appella questa città con tre torri ”, indicando i campanili delle tre cattedrali parrocchiali; probabilmente vi si rispose: “ Semprecchè la parola reale di Vostra Cesarea Maestà non deve andare indietro, è questa la città di Randazzo, dalla Maestà Vostra, or ora onorata dal titolo di Città;” al che l’Imperatore soggiunse: ” Resta accordato[2].

Per la circostanza, Carlo V, aveva chiamato CIVITAS Randazzo, aggiunse l’appellativo di Urbs Plena con un diploma (Rescritto) inviato da Messina il primo Novembre 1535[3].

La tradizione popolare ci racconta che fu tale l’accoglienza riservata all’Augusto Sovrano che appena giunto nella residenza a lui riservata (Il Palazzo Reale), abbia voluto affacciarsi da una delle finestre per ringraziare il popolo festante e in quell’occasione abbia pronunciato la frese “ . Todos Ustedes son Caballeros “, Siete tutti Cavalieri. Da allora, scherzosamente, tutti i cittadini randazzesi vengono definiti “ Nobili Cavalieri ”.

Interessante e veritiero è invece il fatto che, nel pernottamento seguito al suo giungere nella cittadina etnea, l’Augusto Imperatore abbi “Amato “ una bella e nobile normanna randazzese. A tal proposito e noto e riportato anche in un testo universitario del compianto Prof. Santi Correnti, docente di Storia della Sicilia presso l’Università di Catania, di un sonetto di autore ignoto che racconta in poesia tale fatto.

Scritto in stretto dialetto randazzese, è’ molto bello, e a futura memoria lo riporto in questa sintetica descrizione della “Venuta di Carlo V a Randazzo “.

 

E Carlu V t’incurunau riggina

quannu passau ‘ntra lu to Rannazzu.

Ti vossi ‘ntra lu sonnu pi vicina,

ccu illu ti purtau ‘ntra lu palazzu.

 

[1] Prof. Don Santino Spartà: Carlo V da Tunisi a Messina per Randazzo. Gangemi Editore 2017, pag. 58. Cit.

[2] G. Plumari ed Emmanuele: Storia di Randazzo. Ms. presso biblioteca comunale di Palermo.

[3] M. Mandalari: Ricordi di Sicilia. Randazzo. Città di Castello, 1901, pag. 12.